lunedì 12 aprile 2010
Cure negate senza tessera sanitaria
Il documento e le cure negate a una piccola nigeriana perché il padre non aveva più il lavoro. Il caso all’Uboldo di Cernusco: la Procura apre un’inchiesta. E in duecento sfilano a Carugate per protesta
di GABRIELE CEREDA
Il padre della piccola nigeriana
Rifiutata dall’ospedale perché le era scaduta la tessera sanitaria, una bambina nigeriana di 13 mesi muore poche ore dopo. Il padre, in regola con il permesso di soggiorno, aveva appena perso il lavoro e non poteva rinnovare il documento che forse avrebbe strappato la piccola alla morte. «Uccisa dalla burocrazia», dicono gli amici della coppia, che in 200 hanno sfilato per le vie di Carugate, hinterland di Milano, dove la famiglia vive.
FOTO Gli amici in strada a Carugate
«I medici avrebbero potuto salvarla se non si fosse perso tutto quel tempo e se le cure fossero state adeguate. Se fosse stata italiana questo non sarebbe successo», grida ora Tommy Odiase, 40 anni, in Italia dal 1997. Chiede giustizia mentre stringe la mano della moglie Linda, di nove anni più giovane.
La notte del 3 marzo la piccola Rachel sta male, è preda di violenti attacchi di vomito. I genitori, spaventati, chiamano il 118. Arriva un’ambulanza che li trasporta al pronto soccorso dell’Uboldo di Cernusco sul Naviglio. Il medico di turno, in sei minuti, visita la paziente e la dimette prescrivendole tre farmaci. «Non l’ha nemmeno svestita», racconta la mamma. Sul referto medico si leggono poche parole: «Buone condizioni generali». Sono riportati anche gli orari di ingresso (00.39) e di uscita (00.45).
Il quartetto, con loro c’è anche la figlia più grande, di due anni e mezzo, gira in cerca della farmacia di turno. Ma le medicine sono inutili e alle 2 di notte l’uomo torna al pronto soccorso. Vuole che qualcuno si occupi della figlia, che sta sempre più male. «Il personale ci risponde che “la bambina ha la tessera sanitaria scaduta, non possiamo visitarla ancora o ricoverarla”», denuncia il 40enne. «Un fatto di una gravità assoluta — sottolinea l’avvocato della famiglia, Marco Martinelli — Dobbiamo capire se esistono direttive precise per casi come questo».
In mano Tommy Odiase ha un permesso di soggiorno da residente da rinnovare ogni sei mesi ma che scade in caso di disoccupazione. Il nigeriano, per ottenere il rinnovo della tessera sanitaria propria e delle figlie, doveva presentare una serie di documenti che ne attestassero la posizione, fra i quali la busta paga dell’ultimo mese. Licenziato solo sei settimane prima, la pratica si è trasformata in un incubo.
Davanti al rifiuto dei medici, l’ex operaio diventa una furia. Urla, vuole attenzione. Qualcuno dall’ospedale chiama i carabinieri per farlo allontanare. Forse dall’altra parte della cornetta ricordano che pochi giorni prima all’ospedale di Melzo, stessa Asl, era morto un bimbo albanese di un anno e mezzo rimandato a casa dal pronto soccorso. L’intervento dell’Arma risolve momentaneamente la situazione: Rachel viene ricoverata in pediatria.
Sono le 3 di notte, «ma fino alle otto del mattino nessuno la visita e non le viene somministrata alcuna flebo, nonostante nostra figlia avesse fortissimi attacchi di dissenteria e non riuscisse più a bere nulla», raccontano i genitori. Nel tono della voce rabbia e dolore si mischiano. La sera del giorno dopo la situazione è critica, tanto che oltre alla flebo accanto al letto spunta un monitor per tenere sotto costante controllo il battito cardiaco. Alle cinque e mezza il cuore della bambina si ferma, dopo 30 minuti di manovre di rianimazione viene constatato il decesso.
I carabinieri acquisiscono le cartelle cliniche, gli Odiase presentano una denuncia per omicidio colposo a carico dei medici e dell’ospedale, la Procura di Milano apre un’inchiesta con la stessa accusa contro ignoti. Ora si attendono i risultati dell’autopsia, pronti per il 12 maggio.
NEWS
giovedì 8 ottobre 2009
martedì 14 aprile 2009
Un altro vile episodio di razzismo
«Hai una macchina troppo vecchia»Lo picchiano e gli fanno perdere un occhio
La vittima è un 30enne senegalese colpito da due italiani
Prima lo ha preso in giro perché guidava una vecchia auto, secondo lui un modello fuori moda. Poi lo ha colpito con una bottiglia al capo fino a romperla, accompagnando l'aggressione con insulti razzisti. Vittima dell'ultimo episodio di xenofobia fra Tor Bella Monaca e Casilino è stato lunedì notte un cittadino senegalese di 30 anni ora ricoverato in prognosi riservata in ospedale. L'uomo, curato dai medici del Policlinico di Tor Vergata, perde la vista da un occhio per i colpi ricevuti dall'aggressore, B.M., 20 anni, pregiudicato, arrestato dai carabinieri nella sua abitazione sempre a Tor Bella Monaca. Il giovane è accusato di lesioni gravissime, aggravate dall'odio razziale. Per lo stesso reato è stato denunciato un suo amico sedicenne, che ha partecipato all'aggressione.
L'AGGRESSIONE - Il senegalese è stato affrontato dai due fuori da un bar di via Casilina. Erano le due di notte. Spalleggiato dal minorenne e anche da altri giovani, B.M. ha iniziato a prendere in giro il trentenne. Alla reazione della vittima ne è nato un violento litigio, al culmine del quale il ragazzo ha afferrato una bottiglia e si è avventato sull'altro colpendolo più volte. Proprio in quel momento è intervenuto un avventore del bar che ha cercato di proteggere il senegalese ma il suo tentativo è fallito. Dopo la fuga dell'aggressore e dei suoi complici, la vittima ha chiesto aiuto ai carabinieri. Più tardi gli investigatori della compagnia di Frascati e della stazione di Tor Bella Monaca hanno rintracciato B.M. a casa dove, nel corso di una perquisizione, è stata sequestrata anche la sua maglietta ancora sporca di sangue. Il ventenne è stato condotto nel carcere di Regina Coeli.
L'AGGRAVANTE - Al 20enne arrestato anche l'aggravante dell'odio razziale. L'aggressione, infatti, fanno notare i carabinieri della compagnia di Frascati, è stata preceduta da vari insulti tra cui «negro di m...». Le lesioni personali gravissime, contestate per la lesione permanente a una funzione vitale, in questo caso la vista, sono state aggravate, perché oltre all'uso della bottiglia l'aggressore ha ingiuriato l'uomo con frasi razziste. Il pregiudicato rischia, spiegano gli investigatori, dai sei ai 12 anni di carcere. L'aggravante farà salire la pena.
Rinaldo Frignani14 aprile 2009
dal Corriere della Sera on Line
commento:
chi gli ridarà l'occho?
venerdì 20 marzo 2009
Morte naturale?
La Croce Rossa: morto per cause naturali. Disposta autopsiaIl Viminale ha ordinato un'inchesta per chiarire i fatti
Approfondimenti
■ Garante detenuti: Cie di Ponte Galeria in emergenza permanenteROMA (19 marzo) - Un immigrato algerino di 40 anni è morto ieri sera in una camerata del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria a Roma a causa «di un arresto cardiocircolatorio». L'immigrato era arrivato ieri da Modena. Polemiche. Il direttore del Centro, Fabio Ciciliano, ha confermato a PeaceReporter la morte dell'uomo «smentendo che sia avvenuta a causa delle percosse». L'uomo, ha aggiunto Ciciliano, era un tossicodipendente. A Radio Popolare un immigrato aveva raccontato che l'uomo «è uscito per essere medicato, ma i poliziotti lo hanno picchiato e lo hanno rimandato in cella».Croce Rossa: morte naturale. Ad accorgersi che lo straniero era morto sono stati questa mattina gli altri immigrati che hanno avvertito la polizia. A constatare la morte dell'algerino la Croce Rossa secondo la quale si è trattato di morte per cause naturali dovute a un arresto cardiocircolatorio. Inutili i tentativi di rianimarlo.La testimonianza a Radio Popolare. «Noi - ha detto l'immigrato - dicevamo a loro che era morto ma i poliziotti dicevano che faceva finta di essere morto per uscire e scappare. È successo stanotte intorno alle 11. Non hanno fatto niente, lo hanno fatto sdraiare, lui ha cominciato a pregare perché aveva capito che stava per morire, ma loro continuavano a pensare che lui volesse uscire fuori per scappare». E ancora: «Quell'uomo ieri sera si è sentito male, aveva male allo stomaco, hanno chiamato la Croce Rossa per vedere cosa c'era, ma la polizia ha fatto dei problemi». Il testimone dice che «la polizia lo ha picchiato, non lo so con cosa, poi lui è tornato in stanza. Oggi lo hanno trovato morto. Aveva la faccia gonfia, i piedi e le mani blu», ha detto il testimone.Disposta l'autopsia. Il direttore del Centro di Ponte Galeria ha avvertito l'autorità giudiziaria che ha disposto l'autopsia per accertare le cause della morte.Chiedono un'indagine sulla morte dell'immigrato Massimiliano Smeriglio, assessore provinciale alle Politiche del Lavoro e Formazione, il presidente del Consiglio regionale del Lazio, Guido Milana e l'assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri.Inchiesta del Viminale. Il ministero dell'Interno, in relazione alla morte del ragazzo algerino nel centro di identificazione ed espulsione Ponte Galeria a Roma, ha disposto un'indagine amministrativa per chiarire le circostanze e i fatti avvenuti anche in relazione al rispetto delle regole cui è tenuto il gestore del centro. «Si tratta - spiega il Viminale - di una prassi doverosa già attuata in altre tragiche circostanze, nel rispetto dell'autonoma valutazione dell'autorità giudiziaria».
Dal Messaggero on line
venerdì 6 febbraio 2009
NOTIZIA ..DESTRA/PADANEWS..L' INDIANO DI NETTUNO

L’indiano di Nettuno (Roma) si era dato il fuoco da solo perché non aveva un altro modo per farsi la barba.
Tutti i ragazzi italiani accusati non c’entrano ..Tutti innocenti e bravi cittadini!!!!!
Il primo cioè il minorenne era corso per prendere un liquido (acqua o benzina?) per spegnere il rogo.
Il secondo era andato al tabacchi vicino per chiamare la polizia e comprare ance un accendino. Mentre il terzo ragazzo stava vicino il povero Indiano cercando di spegnere il rogo con un bastone e qualche coperta.
La comunità indiana li ringrazia, i loro familiare, difensore e la giustizia italiana.
martedì 18 novembre 2008
PERCHE' SI DELINQUE IN ITALIA.....

mercoledì 29 ottobre 2008
LA GIUSTIZIA?....eeeh Qui è cosi amici miei
Femminicidi: Meredith Kercher e Giovanna Reggiani, se il colpevole è il negro o lo zingaro è più facile fare giustizia di Gennaro Carotenuto, Mercoledì 29 Ottobre 2008, 09:27 ![]() Resta la considerazione, scomoda, che sia molto più facile far giustizia per un femminicidio in Italia quando il colpevole è un outsider, il negro o lo zingaro, e molto meno facile quando è un insider, un membro della comunità. Perciò vedremo (senza prevenzione) se sarà usato lo stesso metro per il ragazzo borghese difeso dall'avvocatessa e parlamentare di grido (Raffaele Sollecito e Giulia Buongiorno) o per la bella americanina (chissà perché usano il vezzeggiativo, come fidanzatini) Amanda Knox. Sheryl Grana ha studiato come: "i femminicidi sono ignorati o sensazionalizzati a seconda della razza, classe sociale e attrattiva della vittima". E' una costatazione che ci porta a concludere che la rappresentazione mediatica del femminicidio elude sempre i contorni e la portata del fenomeno per ragionare con i canoni dell'infotainement, dell'informazione intrattenimento. Esistono femminicidi glamour, per pruriti sessuali o speculazioni politiche, e altri che è interesse di troppi sopire. Esistono femminicidi con vittime e colpevoli perfetti e ne esistono altri che non corrispondono all'allarme sociale fatto percepire dall'opinione pubblica. E quindi non sorprende che non vi sia alcun interesse né esposizione mediatica per il processo a carico del rispettabile dentista Raffaele Caposiena, accusato di avere assassinato a martellate la sua convivente ecuadoriana di 21 anni, Sofia Margarita Varela Freire a Pesaro. O che sia calata un cortina di fumo sul processo agli assassini di Lorena Cultraro, la quattordicenne di Niscemi stuprata in gruppo, assassinata e buttata in un pozzo. O che sia in corso la più cinica delle speculazioni intorno al caso di Barbara Cicioni, incinta di otto mesi, ammazzata di botte dopo anni di maltrattamenti dal marito Roberto Spaccino (che aveva accusato "una banda di albanesi"), in maniera evidentemente premeditata, di nuovo nel perugino. Chissà come finiranno i processi per tutti gli almeno 107 femminicidi commessi in Italia nel solo anno 2007, la stragrande maggioranza dei quali non merita neanche una breve in cronaca. Sono 126 con quelli di gennaio 2008 (101 erano stati nel 2006) e sono stati studiati da Sonia Giari in un documento eccellente che i giornalisti che si occupano di questi casi dovrebbero mandare a memoria: La mattanza. Femminicidio ricerche sulla stampa italiana nell'anno 2007. La lettura dello studio di Sonia Giari, che elenca sommariamente tutti i casi, conferma quello che si conosce ma che i media tradizionali nascondono sistematicamente all'opinione pubblica e che quindi il giornalismo partecipativo ha il dovere di far notare ogni volta che può. Il 35% degli assassini (o presunti tali) è il legittimo consorte della donna uccisa. Addirittura i tre quarti delle donne sono uccise da un familiare. Oltre al marito (e padri, figli eccetera) c'è il fidanzato, l'amante, ma soprattutto l'ex. Tutti uccidono per i motivi arcaici di sempre, possesso, onore, sapere di avere la forza come arma per sostituire la ragione. Del quarto rimanente la metà dei crimini è commesso da amici e conoscenti. Quindi solo un femminicidio su otto in Italia, circa uno al mese, è commesso da sconosciuti. Ed è molto più comune che un uomo italiano, come nel caso di Sofia, uccida una donna straniera che il caso di un uomo straniero, possibilmente di razze inferiori, negri o zingari per capirci, che uccida "le nostre donne". Non basta. Sofia, Lorena, Barbara sono tre delle decine di casi nei quali la nostra opinione pubblica sceglie o è indotta a fare il tifo per l'assassino senza neanche vergognarsene. Nel contesto spesso provinciale dei femminicidi nei sette ottavi dei casi l'assassino ha almeno altrettanti legami familiari e relazioni sociali della vittima. E' un intreccio che genera omertà, il silenzio, l'elusione, soprattutto quando l'uomo è ricco, potente, influente. E' complice il complesso mediatico, sono senza ritegno i legulei che falsificano contesti insinuando colpe di chi non si può più difendere, è colpevole lo squallore della politica che fabbrica consenso andando a caccia del nemico esterno. E l'opinione pubblica, il peso delle culture dominanti, non sono ininfluenti nei percorsi di impunità. Generano impunità. I processi per femminicidio stessi stanno modificandosi e in peggio. Fino a pochi anni fa le difese puntavano sull'infermità mentale, sull'incapacità di intendere, sul raptus di follia. Adesso le difese puntano dritte sull'impunità. E' una strategia che paga e in genere trova un'opinione pubblica disponibile. Se lo possono permettere. E' infatti una strategia interna alla cultura troglodita, arcaica nonostante la nostra apparente modernità, per la quale l'omo è omo e la donna provoca. Ed è una cultura che nell'attuale fase storica non può che portarci ad ulteriori regressioni visto che viviamo in una società dove la gerarchizzazione della quale è sempre più caratterizzante. C'è un caso simbolico in questo, anche se per pura casualità non si concluse con la morte, successo nella tranquilla provincia di Macerata. Nell'estate del 2006 Bruno Carletti, direttore artistico del teatro della città, massacrò di botte l'ex moglie, Francesca Baleani. Credendola morta ebbe la lucidità di disfarsi del corpo. La chiuse in un porta abiti, la caricò in macchina, e la buttò in un cassonetto dei rifiuti in un posto isolato. La donna si salvò per incredibili circostanze fortunate ma sul crimine di Bruno Carletti, ricco, potente, membro dell'establishment sociale e culturale della città, calò il silenzio. Lui, dopo poche settimane di carcere, riuscì a farsi affidare ad una comodità a pochi km di distanza e cominciò a pretendere perdono da lei e dalla città di essere riaccettato alla vita di prima, trovando nella migliore delle ipotesi occhi abbassati ma mai disprezzo dichiarato. E così il femminicidio è la cartina tornasole di una società che sta tornando predemocratica e dove regnano gerarchia e ordine sociale. L'uomo può disporre della donna. Il ricco è sopra il povero. Il forte può abusare del debole. Il bianco può incolpare il nero. E' così elementare e dicotomica la cultura dell'uomo bianco italiano senza differenze per una volta tra Nord e Sud. Uccide ancora per possesso o per onore come mill'anni fa. Sempre più spesso è lucido nell'occultare prove e cadavere, l'ha visto fare in diecimila telefilm. Poi si autoconvince, e trova un intorno sociale compiacente, di non meritare alcuna punizione: in fondo mica è un criminale, è un gran lavoratore, è un bravo ragazzo, una persona così per bene, salutava sempre, oramai la moglie l'ha ammazzata, mica può reiterare il reato, che ci sta a fare in galera, e poi anche lei… qualcosa avrà fatto lei perché lui reagisse così. Il caso Spaccino è simbolico, come quello di Garlasco, dove l'intero paese fa quadrato intorno ad Alberto Stasi. Possiamo stupirci che centinaia di Bruno Carletti proprio non capiscano che senso abbia punirli? Ieri abbiamo fatto giustizia del negro e dello zingaro, ma il mostro è tra noi. A questo link la sezione femminicidi del sito. Ha collaborato Barbara Spinelli. |
venerdì 3 ottobre 2008
SI ASPETTAVA QUESTA 'DIFESA.....'
PROSTITUTA MALTRATTATA: DA UNA DENUNCIA LA VERITA'Clamoroso colpo di scena nella vicenda della foto, scattata al comando della polizia municipale di Parma, che ritraeva una prostituta nigeriana seminuda e abbandonata a terra all'interno di una cella di sicurezza. La testimonianza di un'altra prostituta sudamericana smonta il caso: la donna, che si e' rivolta alla Questura, ha infatti dichiarato che la prostituta, la cui foto fece il giro del mondo, non e' stata in nessun modo maltrattata dai vigili urbani della citta' emiliana, attualmente nella bufera del caso del presunto pestaggio di un ragazzo di colore. La testimonianza verra' pubblicata in esclusiva domani dalla Gazzetta di Parma ed e' stata anticipata da alcuni minuti dal sito dello stesso quotidiano. Nella sua denuncia, la prostituta - che racconta come sia stata cercata insistentemente da alcuni giornalisti che volevano convincerla a denunciare i vigili - ha spiegato di non aver subito alcun maltrattamento da parte degli agenti della polizia municipale e che la prostituta ritratta in foto avesse aggredito i vigili tirando calci nel tentativo di liberarsi. "Per quanto potuto constatare - ha spiegato la donna alla questura - nessuno la toccava con un dito. Anzi, era i vigili che avevano la divisa scomposta per i comportamenti della donna che alternava la violenza al finto svenimento". |
martedì 23 settembre 2008
BUCO NERO
Nel buco nero di Castelvolturno dove la vita vale 25 euro al giorno
Eduardo Di Blasi

Oggi, uscita da quel convento, è tornata a Castel Volturno e ha lasciato le figlie a Roma. Ha fame, in tasca non ha nemmeno i soldi per le sigarette, gira per strada con uno scialle leggero mentre inizia a fare veramente freddo. Eppure è tornata qui. Perché? Perché solo qui Nunzia può sopravvivere, può arrangiarsi, può grattare qualcosa per se, può nascondersi assieme agli altri suoi connazionali nell'enorme buco nero che da quasi trent'anni cancella le storie degli africani d'Italia. Troverà un tetto, troverà dei soldi, spacciando o mettendosi sul ciglio della strada a vendere quello che resta di se stessa. Ce la farà: sopravviverà. Troverà la sua fetta di vita alle spalle della Domitiana, in queste case basse attraversate da stradine piene di rifiuti e di facce di neri. Manderà i soldi a casa da questo nuovo convento senza indirizzo. Nessuno le chiederà nulla.
Come nessuno chiederà mai niente ad Alex, ghanese di 30 anni, faccia incazzata mentre cerca di mettere in fila due parole in italiano. Nessuno gli chiederà nulla, tranne l'affitto per il letto (150 euro al mese) e le sue braccia, che sono in vendita tutte le mattine alle cinque, in una piazza di Pianura, davanti al bar Ferrara. Una giornata di lavoro senza alcuna copertura assicurativa viene via per 20-25 euro, sei giorni la settimana domenica esclusa, sempre che il padrone non decida che preferisce picchiarti e non darti nulla, perché tu, in fondo, non sei niente.
Ecco perché nessuno chiede loro nulla, perché loro non esistono. Sono ventimila gli immigrati irregolari nella provincia di Caserta, almeno 11mila quelli di Castel Volturno, che sono per la stragrande maggioranza africani.
«Non esiste un posto così nel mondo», avvisa Antonio Casale, direttore del centro Fernandes, da 12 anni fiore all'occhiello della Caritas di Capua nel cuore di questo buco nero. Non esiste, non fa fatica a rispondere, perché qui, in 30 anni, non è successo niente. «Prima arrivavano i francofoni del Benin e della Costa D'Avorio, poi è stata la volta dei ghanesi, dei togolesi, dei nigeriani. Oggi arrivano i sudanesi, i liberiani, sempre più poveri e più ignoranti». Arrivano a Castel Volturno per due motivi fondamentali. Il primo è che in nessun posto del mondo un immigrato irregolare potrebbe trovare una casa. Non ci sono barboni a Castel Volturno. Tutti hanno un tetto dove ripararsi in questo paradiso di seconde case cadenti. La seconda ragione è che qui ci sono gli altri africani, da sempre. E allora puoi creare una microcomunità.
Eccolo il «modello Castel Volturno», la non integrazione di bianchi e neri che ha portato a quella che Casale definisce «la separatezza». Nel buco nero senza legge, dove anche un occupante di casa napoletano può chiedere l'affitto a un africano e la cosa sembra normale, dove le automobili non solo non hanno l'assicurazione esposta, ma alcune nemmeno il posto dove esporla, le comunità vivono per conto proprio.
«Hanno i loro negozi, i loro quartieri, anche le loro chiese». Tutti. Ognuno per sè. Ecco perché anche quelli che vivono qui da dieci anni non parlano una parola di italiano: perché sembra non dovergli servire. «Se ne accorgono appena vanno via da Castel Volturno». È un circolo vizioso che crea questi mondi paralleli, questi traffici leciti e illeciti. È l'obiettivo di trovare i sessanta euro a settimana, le due-tre giornate di lavoro.
«Cacciar via gli immigrati non è la soluzione al problema di quest'area. Per Castel Volturno e il litorale Domizio occorre altro: un organico progetto di riqualificazione». A parlare è l'arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, che presiede la fondazione Fernandez, che accoglie ogni giorno 60 immigrati con un servizio mensa che offre il pranzo a 100 persone. «Hanno paura ed è comprensibile: per mia esperienza personale questa è gente che non fa alcun male». Ma quel che ci vuole è una strategia: «Il discorso è più ampio e non si risolve mandando via alcune centinaia di stranieri, che qui fanno lavori che altri non intendono svolgere».
Fabio Basile, anche lui da anni nella trincea di Castel Volturno a metterci tutto quello che può metterci la società civile in un processo del genere (è tra gli animatori del centro sociale "Ex canapificio" di Caserta da sempre impegnato sul mondo migrante), non fa fatica a descrivere il modello suddetto: «È così, e nessuno se ne importa. Il governo, ancora una volta, pensa di farne un problema di sicurezza pubblica, ma qui è chiaro che stiamo parlando d'altro».
Vediamo bene di cosa stiamo parlando allora. «Noi siamo un piccolo comune campano con i problemi di una metropoli», sintetizza il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e per fare un esempio dell'enorme mole di lavoro che si trova a fronteggiare nella sua scomoda posizione spiega: «Abbiamo ventimila irregolari, venti vigili urbani e una sola assistente sociale, perché con i tetti di spesa non possiamo assumerne nemmeno un'altra, e non sto dicendo che ne servono due».
Non va meglio a polizia e carabinieri che dovrebbero presidiare un territorio in cui le regole non solo non esistono, ma sembra quasi non possano esistere, con la camorra che possiede case, negozi e bar, che spara e commercia, costruisce, investe, interra rifiuti speciali e fa mozzarelle. E queste centinaia di facce scure, schiavi composti di questa terra, che solo per identificarli ci vorrebbero 5mila giorni e per sequestrargli la macchina un deposito giudiziario di diversi chilometri quadri. Angelo Papadimitra, segretario della Cgil di Caserta, non ha dubbi: «Da questa storia si esce solo con una legge speciale per Castel Volturno. Ci vuole una sanatoria». Invece il governo si fa portabandiera di un nuovo «ordine pubblico», in un posto in cui i sei africani ammazzati giovedì scorso aspettano ancora un funerale. Tra sabato e domenica non si è trovato nessuno che facesse l'autopsia di quei corpi crivellati di colpi.
Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 8.37
http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=79205
lunedì 22 settembre 2008
LA PRIMA RISPOSTA ITALIANA ALLA STRAGE
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sabato 20 settembre 2008
NIGERIANS NOT INVOLVED
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venerdì 19 settembre 2008
NON ERANO CRIMINALI
CASERTA (19 settembre) - Davanti al negozio 'Ob Ob exotic Fashions' c'è lo zio di una delle vittime. Steven, ghanese, fa il giardiniere e dice che suo nipote Giulios, 32 anni, una delle vittime «era un bravo ragazzo. Non ha mai fatto nulla di male, non è un criminale». Steven mostra le sue mani per dimostrare che «noi qui ci ammazziamo di fatica, non siamo certo dei camorristi». Ripete la stessa storia anche Cristopher, liberiano di 28 anni. Lui conosceva Alaji, 28 anni, un'altra delle vittime. «Lavorava nel negozio di sartoria, era alla macchina da cucire quando è stato ammazzato - racconta Cristopher - la camorra? Forse cercava qualcun altro ma di certo nessuno dei nostri amici». Un altro extracomunitario, che parla solo la sua lingua, racconta che poco prima della strage due persone a bordo di due motorini avevano più volte fatto la spola davanti alla sartoria. Ma ad un certo punto le versioni degli africani sembrano contraddirsi. Uno di loro, infatti, sostiene che poco distante dalla strage c'era un Suv di colore nero in attesa, con all'interno alcune persone che poi si sono spostate davanti alla sartoria e hanno fatto la strage. Tra la folla di extracomunitari c'è anche Obodu, liberiano. L'uomo mostra le ferite: è una delle vittime del 18 agosto scorso quando nel centro di Castel Volturno i sicari ferirono a colpi di pistola e fucile 5 extracomunitari, ma senza provocare morti.
sabato 6 settembre 2008
Pretende sesso da donna senza biglietto
Pretende sesso da donna senza bigliettoDenunciato un capotreno di 53 anni
L'uomo avrebbe consumato il rapporto sul convoglio. Ora è stato sospeso in via cautelativa da Trenitalia
BOLOGNA - Pensava di farla franca un capotreno che ha preteso una prestazione sessuale da una passeggera scoperta a viaggiare su un treno senza biglietto. Invece il 53enne di origine campana, ma residente a Milano, è stato denunciato dalla Polfer è sospeso dal lavoro in via cautelativa da Trenitalia.
L'AMPLESSO - Il fatto è successo lo scorso 21 agosto. La donna, una ragazza nigeriana di 27 anni regolare in Italia, stava viaggiando sul convoglio 9417, un Eurostar Milano-Lecce, quando nella tarda mattinata - transitando nella zona di Reggio Emilia - è incappata nel controllo del biglietto. Il dipendente di Trenitalia, quando ha capito che la giovane non aveva il tagliando, ha spiegato alla donna che se voleva evitare le conseguenze del mancato pagamento del biglietto poteva appartarsi con lui per una prestazione sessuale. Prestazione effettivamente consumata poco dopo - sempre stando al racconto della donna - in un locale appartato in uno scomparto nella parte posteriore del convoglio.
LA DENUNCIA - Dopo aver subito l'abuso, però, la donna ha subito avvisato il compagno (che viaggiava sullo stesso treno, ma separato da lei) che a sua volta ha chiamato con il telefono cellulare il 113. A quel punto - il treno era già a ridosso della stazione ferroviaria di Bologna - sono intervenuti gli uomini della Polfer del capoluogo emiliano. I poliziotti hanno raccolto i racconti di entrambi. Lui ha negato ogni addebito, lei invece ha fornito particolari precisi della vicenda. Alla fine la polizia ferroviaria ha denunciato l'uomo all'autorità giudiziaria per concussione sessuale. Sulla vicenda erano subito intervenute, il giorno dopo, le Ferrovie dello Stato, con una nota in cui spiegavano che il Gruppo, informato dell'episodio di «presunto tentativo di molestie sessuali» aveva «immediatamente avviato i necessari accertamenti per chiarire la dinamica dei fatti. Qualora fosse accertata la responsabilità del dipendente saranno adottati i provvedimenti disciplinari previsti». L'uomo è stato effettivamente sospeso in via cautelare per 60 giorni. In attesa che si completi l'accertamento dei fatti Trenitalia, alla luce degli elementi acquisiti, ha ritenuto opportuno applicare il provvedimento.
05 settembre 2008
martedì 2 settembre 2008
«Tornare in Nigeria? No, a me piace qui».
La parrucchiera nata a Benin City resta a Torino. Ieri in aula cinque processi e altrettante assoluzioni
«Tornare in Nigeria? No, a me piace qui». Clandestina assolta

L'imbianchino albanese
Si chiama Kleanthi Kongjani, è albanese e ha 28 anni. È irregolare in Italia, vive a Torino con il fratello e altri familiari. Fa l'imbianchino, lavora a Ivrea. Era stato fermato una prima volta a fine luglio, gli agenti gli avevano notificato l'ordine di lasciare il territorio italiano perché privo di un regolare permesso di soggiorno. Kleanthi Kongjani ignora l'ordine del Questore e continua la vita di sempre. Viene fermato una seconda volta a fine agosto, in questa occasione scatta l'arresto. Kongiani viene processato, ma il giudice Paolo Gallo accoglie le richieste della difesa e opta per la liberazione dell'imputato e l'assoluzione nel processo con rito abbreviato. Il motivo? L'imbianchino albanese è giovane, incensurato e ha un lavoro.
La parrucchiera nigeriana
Edith Oriri viene fermata per la prima volta nel gennaio di un anno fa. È priva di documenti, le viene ordinato di tornarsene in patria, in Nigeria. Ma lei resta in Italia. «Preferisco vivere qui, a me la Nigeria non piace», spiega ieri mattina al giudice Gallo. «Qui lavoro come parrucchiera, mi trovo bene. In Nigeria non saprei dove andare, lì è rimasta solo mia sorella». Edith viene fermata per la seconda volta alcuni giorni fa, viene arrestata e ieri mattina processata. E assolta «perché il fatto non costituisce reato».
L'ambulante gabonese
Habdull Fall non ha studiato, non sa leggere né scrivere. «Per questo motivo - spiega al giudice - non ho lasciato l'Italia. Non riuscivo infatti a capire cosa ci fosse scritto sul foglio che mi ha consegnato la polizia». Quel foglio gli intimava di lasciare al più presto il territorio nazionale. Habdull Fall, però, resta in Italia, a Torino. Dove continua a vendere le sue borse. Viene arrestato, processato. Assolto. Da oggi potrà tornare in strada a vendere i suoi prodotti.
L'operaio marocchino
Abdelrhafour Sellami ha 24 anni, vive a Torino con il padre e lo zio. «Lavoro, faccio l'operaio. E i soldi che guadagno devo spedirli in Marocco. Lì vive ancora mia madre, non ha un lavoro e io devo aiutarla». Abdelrhafour viene fermato una prima volta a giugno, quindi a fine agosto. «Non sono andato via dal vostro paese non solo perché devo mantenere mia madre, ma anche perché ho dovuto assistere per mesi mio padre malato». Assolto anche lui.
Il rifugiato iracheno
Mohmed Husseno è nato a Baghdad, città dalla quale è fuggito quando sono arrivati gli americani. «Non riuscivo a trovare lavoro, non riuscivo a mangiare. Lì c'è la guerra, è impossibile condurre una vita normale». Un ritornello ripetuto in aula anche dal difensore dell'imputato: «Su Baghdad piovono bombe quasi tutti i giorni, come può il mio cliente tornare a vivere in quell'inferno?». Accontentato. Mohmed Husseno viene scarcerato e assolto. Anche lui potrà ricominciare a vendere borse. Borse rigorosamente false. Scritto da: Giovanni Falconieri - falconieri@cronacaqui.it
