'L'Italia sono anch'io'. Città di nascita: Aversa, provincia della Nigeria
Martedì 14 Febbraio 2012 15:24
di Mario Paciolla
Fuori è freddo. La pioggia cade senza posa imbrigliando la strada tra irregolari tappeti scivolosi di colore grigio. In queste condizioni rifletto sulla possibilità di raggiungere Castelvolturno in macchina. Dopo una breve colazione controllo il meteo e la connessione. Riesco a rintracciare Susan, chiedendole la possibilità di chiamarla via Skype. E’ in linea.
“Stavo sbucciando gli yam insieme a mia madre”. Lo yam è un particolare tubero simile alla patata dolce, utilizzato in molte ricette africane. Non nascondo di aver subito chiesto cosa fosse uno yam. Dati i numerosi impegni, anche per lei è una buona idea rispondere a qualche domanda telefonicamente. E’ indaffarata a preparare il pranzo e, a causa del tempo, ha dovuto posticipare la sessione di prove con il coro gospel. Ha dei tratti molto forti ed il viso sembra intagliato in una corteccia d’ebano. I genitori, padre ghanese e madre nigeriana, si conobbero in Italia e, dopo un anno, decisero di sposarsi e metter su famiglia nel casertano. Susan nacque ad Aversa nel 1991. Dopo di lei nacquero altri due fratelli. Tutti in Italia. Nel raccontarmi del padre, un accenno di nostalgia sfiora appena la sua voce forte come il sole africano, dicendomi che la lasciò quando aveva appena nove anni. I pochi ricordi che conserva, sono legati ai racconti della madre. Dopo la perdita, la famiglia decise di stanziarsi nella provincia di Castelvolturno, dove è presente una delle più numerose comunità nigeriane del paese.
“Mia madre aveva progettato di trasferirsi a Roma, dove viveva la sorella. Aveva documenti, visto e biglietto in ordine. Per un errore la fecero scendere a Napoli. Poi mia zia è tornata in Africa e lei ha conosciuto mio padre che invece era qui da molto più tempo”. Ci tiene a sottolineare con una certa premura che la documentazione presentata all’ambasciata era completa. “Mia madre non ha raggiunto l’Italia irregolarmente. L’hanno fatta diventare irregolare”. Quando Susan aveva dodici anni, la Questura decise infatti di negare il rinnovo del permesso di soggiorno alla signora Darboe, poiché non in possesso di un reddito adeguato ai parametri burocratici. Non avendo raggiunto ancora l’età per muovere i passi da sola tra le fila della Questura, Susan rientrava nella tutela prevista dal permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare della madre. Come diretta conseguenza è stata costretta a vivere per alcuni anni nel proprio paese da irregolare. Non era residente. Per lo Stato Italiano lei non esisteva. Con tanto di certificato di nascita e di frequenza scolastica. “Pensavo fosse tutto uno scherzo. Non ci credevo. Sono nata in Italia. Studio in Italia. Sono italiana. Davo per scontato che a 18 anni sarei diventata una cittadina italiana”. L’aggettivo “italiana” si rincorre in modo ossessivo tra una parola di Susan e l’altra. La madre entra nella stanza e le porge un piattino con qualche pezzo di banana fritta. Affacciandosi per un attimo sullo schermo, mi chiede con divertita e garbata ironia se ne volessi anch’io un po’. La ringrazio tenendole il gioco. Scompare e sento la porta chiudersi. Dai 13 ai 18 anni, Susan, pur frequentando regolarmente la scuola, è priva di documenti, crescendo in un clima di tensione nel timore di eventuali controlli che l’avrebbero potuta in qualche modo compromettere, rischiando addirittura il rimpatrio forzato in un paese che non ha mai né visto né visitato. Da quando è nata, non ha mai lasciato il territorio italiano. “Non riuscivo ad integrarmi completamente. A scuola ero l’unica che non poteva partecipare alle gite. Alle feste ero l’unica a non essere invitata. Le maestre e mia madre mi dicevano di non farci caso. Io però un poco ci stavo male e mi chiedevo il perché”. A 18 anni, in vista anche dell’esame di Stato, dopo ininterrotti ricorsi, riesce ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ed acquisendo così una protezione internazionale da rinnovare ogni anno. Mi fa vedere il permesso. Alla voce 'nata a' compare il nome del comune di Aversa. Non noto nulla di strano. Abbozzando un sorriso, mi chiede di osservare meglio.
Paese: Nigeria. “Quando me lo rilasciarono, chiesi da quando Aversa fosse considerata una città della Nigeria. Non mi hanno saputo rispondere”.
Fuori continua a piovere incessantemente. La connessione comincia a vacillare trasferendo la chiamata ad intermittenze sempre più frequenti. Chiedo a Susan di chiudere la telefonata. La richiamo nel giro di pochi secondi. È iscritta al secondo anno di giurisprudenza e ha conseguito un certificato di inglese presso il Cambridge. Una volta concluso il ciclo di studi, potrà iscriversi all’Ordine degli Avvocati Italiani solo dopo aver presentato una documentazione degli specifici visti d’ingresso e aver sostenuto un esame di abilitazione previsto per i cittadini stranieri laureati in un’ Università italiana. Il fatto è che Susan non è mai entrata in Italia. Ci è nata e non l’ha mai lasciata. Lavora part-time con una cooperativa e non può in alcun modo firmare un contratto di lavoro per i soliti limiti imposti dai motivi legati al rilascio del permesso di soggiorno. E’ iscritta all’ ARCI e fa parte del dipartimento immigrazione CGIL di Caserta, collaborando come mediatrice culturale. “È un lavoro legato alla mia condizione e ai diritti che mi sono negati. Conosco le abitudini delle persone che arrivano in Italia. Provo a comunicare con loro e cerco di creare un’armonia rendendo le cose più semplici”. Le chiedo cosa le piacerebbe fare da grande. “L’avvocato, poiché anche se le cose dovessero cambiare, i problemi ci saranno sempre”. Mi continua a raccontare di quanto sia stato difficile per lei inserirsi e di come sia maturata nel corso degli anni riuscendo a capire come gestire le situazioni. Mi parla di partecipazione, diritti e cittadinanza in modo tecnico e preciso senza mostrare la minima esitazione. La connessione a quel punto ricomincia a dare problemi. In sottofondo sento la voce della mamma chiamarla dall’altra stanza. Mi chiede scusandosi se abbiamo finito. Con il suo consenso mi riservo di farle un’ultima domanda.
Una volta staccata la telefonata rivedo gli appunti presi fino a quel momento, poi Susan mi ricontatta. “Tra un po’ dovrei andare”. Le chiedo di Castelvolturno, della comunità nigeriana e della situazione dopo quanto accaduto negli anni scorsi. Con un attimo di perplessità, mi chiede cosa voglio sapere. “Conoscevo una delle persone uccise nella strage, per il resto ero piccola, non ricordo bene. La situazione dopo quella tragedia si è calmata. Tra italiani e immigrati c’è sempre stato un rapporto di amicizia. In fondo condividiamo tutti lo stesso problema che è anche la causa di quello che è successo e di quello che succede ogni giorno a Napoli”. Nonostante il pensiero inclinato a delineare una zona d’ombra in quello che dice, l’osservazione di Susan è impossibile da equivocare. “L’unico problema reale è quello dei documenti, che lega a doppio filo anche il problema dell’integrazione”. Per un attimo sembra avere un sussulto di curiosità e mi chiede con estrema ingenuità se può farmi una domanda. Mi parla di Jerry Masslo, della strage di Castelvolturno, di Firenze e di Senegal. Purtroppo cade la connessione. Provo a ricontattarla immediatamente senza risultato. Le dico che abbiamo finito e che può scrivermi ciò che voleva chiedermi. Sullo schermo compare una scritta: “Ogni volta che ci sono tragedie come queste, in Italia il Governo pensa bene di risarcire parzialmente i familiari e gli amici delle vittime rilasciando il permesso di soggiorno o addirittura in alcuni casi la cittadinanza. Perché deve morire qualcuno per far sì che le cose cambino?”. Saluto Susan e la ringrazio per la disponibilità, senza ovviamente essere in grado di rispondere alla domanda.
Intervista in collaborazione con Maria Seredenko e Ilaria Izzo dell’Associazione Hemisphereshttp://www.levanteonline.net/index.php/litalia-sono-anchio/6093-litalia-sono-anchio-citta-di-nascita-aversa-provincia-della-nigeria.html