sabato 19 settembre 2009

Tragedia a marzo: erano due le navi affondate dei migranti

di A. Leograndetutti gli articoli dell'autore
Avvenne una notte di poco più di cinque mesi - tra il 28 e il 29 marzo - nelle acque libiche. La notizia fu battuta dalle agenzie di stampa e apparve sui giornali: un naufragio catastrofico, 253 morti. Era una notizia vera. Ma solo per metà: un’inchiesta della magistratura italiana ha accertato che i boat people affondati furono due, stracolmi di donne, uomini e bambini. E che i morti furono circa 600. La più grave tra le tante tragedie dell’immigrazione nel Mediterraneo. Ma partiamo da quanto si sapeva fino a ora. Si sapeva che quella notte era salpata da Said Bilal Janzur un’imbarcazione con a bordo 253 persone e che, a poche decine di miglia dalla costa, era naufragata. Si sapeva di 21 cadaveri recuperati, di 23 naufraghi che si erano salvati tenendosi aggrappati a un frammento del relitto.

E si sapeva pure di un’altra imbarcazione - la terza, dunque, nel nuovo scenario della tragedia - con a bordo 350 uomini e donne che era stata intercettata e ricondotta nel porto di Tripoli da un rimorchiatore italiano, l’Asso 22. La notizia era stata subito confermata dalle autorità libiche e dall’Oim (l’Organizzazione mondiale per le migrazioni). Fin da allora erano sorti dei dubbi sulla reale entità della catastrofe. Insomma, c’era qualcosa di poco chiaro nei numeri del naufragio. Alcune fonti non verificate sostenevano che le barche partite quella notte erano state tre, e non due. E che un’altra si era inabissata scomparendo nel nulla.Le reali dimensioni della tragedia sono state scoperte quasi per caso, grazie alle intercettazioni telefoniche, durante un’indagine sulla prostituzione nigeriana della Direzione distrettuale antimafia di Bari.

Una telefonata agghiacciante. Gli interlocutori sono un trafficante residente in italia e un uomo che parla della Libia. Si autodefinisce «connection-man» e si affanna a rispondere alle insistenti domande del primo. Il trafficante è nervoso. Lo accusa di avergli fatto perdere un «carico» prezioso: trenta ragazze già acquistate per essere messe sui marciapiedi del Balpaese sono «andate perse» in un naufragio: «La barca si è spezzata in due», si giustifica «connection-man». Parlano proprio del naufragio avvenuto la notte tra il 28 e il 29 marzo. In un dialogo che diventa via via più allucinante, «connection-man» prova a parare i colpi: «Tutti danno la colpa a me, ma che colpa ne ho io se c’era cattivo tempo. Le barche si sono spezzate perché il legno con cui erano fatte non era buono». «Le barche», non «la barca»...Nel corso delle conversazioni tra i due (alla prima, ne fanno seguito altre più brevi), «connection-man» dice chiaramente che le barche affondato quella notte erano due, non una. Sulla prima vi erano a bordo 253 persone («E una ventina sono state recuperate», precisa riferendosi alla barca di cui già si sapeva). Sull’altra, sulla nave fantasma, erano molte di più.

Oltre 350. Ed ecco il totale: quasi 600 morti. In una sola notte, dunque, è stato superato il numero delle vittime dell’emigrazione nel Mediterraneo - 418, secondo le stime più accreditate - dall’inizio del 2009. Il titolare dell’inchiesta è il sostituto procuratore Giuseppe Scelsi, lo stesso magistrato che conduce la più famosa inchiesta sullo scandalo barese. L’organizzatore dei viaggi è stato iscritto nel registro degli indagati per strage colposa, ed è stata presentata alla magistratura libica una rogatoria internazionale in cui si chiede di indagare su «connection-man» (di cui si conosce il nome e, ovviamente, un numero di telefono) fornendo alcuni riscontri investigati. Finora, però, la richiesta non ha ottenuto alcuna risposta; la Libia pare sorda a ogni possibile accertamento. Perché? Alla difficoltà di ottenere una collaborazione nelle indagini da parte delle autorità libiche, si aggiunge il fatto che è quasi impossibile ottenere un confronto con i superstiti. Pare che a bordo delle tre imbarcazioni, quella notte, ci fossero uomini e donne provenienti da mezza Africa. Non solo nigeriani, ivoriani, senegalesi, camerunensi. Ma anche molti egiziani, tunisini, algerini...Dei 350 «salvati» dal rimorchiatore Asso 22 e riconsegnati alla polizia libica, non c’è più traccia.

Forse sono finiti in qualche centro di internamento per migranti. Quanto ai 21 recuperati vivi da una delle due navi affondate, i nordafricani (quasi la metà) sarebbero stati rimpatriati nei rispettivi paesi, mentre - secondo Fortress Europe - coloro che provenivano dall’Africa sub-sahariana sono finiti nelle centro di detenzione di Tuaisha, in condizioni degradanti. Quella notte maledetta, quindi, quasi mille persone hanno provato a raggiungere le coste italiane. Quelle che non sono morte, giacciono in qualche carcere della Libia.

Tragedia nella tragedia, accanto ad altri migranti che avevano pagato per il viaggio, hanno perso la vita anche trenta ragazze destinate alla più orrenda delle schiavitù, quella sessuale. Il dramma è che, se non fosse stato per i loro aguzzini, della vera entità del naufragio non si sarebbe mai saputo niente. Di certo questa ecatombe pesa come un macigno sugli accordi stipulati tra Italia e Libia. A tanta celerità nei respingimenti e nelle incarcerazioni dei migranti, fa da contraltare un’inspiegabile lentezza nell’accertare le responsabilità di pochi trafficanti.
FONTE
17 settembre 2009

Strage di Castel Volturno, l'inchiesta Il boss: "Uccidete anche le donne"

E in una lettera Setola intimò ai magistrati: "Scarcerate mia moglie"

Giuseppe SetolaIl terrore mafioso aveva quell´unico movente, «sottomettere la comunità dei neri, ormai dovevano capire». E un chiaro piano esecutivo. «L´ordine di Giuseppe Setola era: "Uccidete tutti quelli che trovate là. Se ci sono le donne, anche le donne"», ha raccontato l´assassino pentito Oreste Spagnuolo. «Difatti per noi era indifferente colpire uno o l´altro. E ci eravamo attrezzati per ucciderne molti di più. Dovevamo fingerci carabinieri, indossare le pettorine, fare una perquisizione in quel locale, attendere che si calmassero le acque e poi ucciderli tutti. La disposizione era che tutti quanti noi dovevamo sparare. E non doveva rimanere nessun testimone».Andò così. Per caso non c´erano anche le donne.


Un anno dopo, ecco le istruzioni complete degli stragisti di Castel Volturno. Legge dei casalesi, la mafia che non distingue gli africani. Un lavoratore vale quanto un bandito, muoiano uno sull´altro, mentre i sicari colpiscono alla cieca e abbattono un sarto, due clienti operai, due manovali, un loro amico che passava. L´obiettivo viene centrato oltre ogni delirio criminale, in quel 18 settembre 2008. Al chilometro 43 della Statale Domitiana, dentro e fuori la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion", cadono infatti sei uomini.


Tutti innocenti, si può confermare oggi sulla scorta degli approfondimenti giudiziari e a dispetto di quanti - persino ministri in carica - li bollarono come «spacciatori».Sono i sei cittadini ghanesi uccisi dalle sventagliate di kalashnikov, mitragliette e pistole, centrotrenta colpi. È un anno, domani. Un tempo che la giustizia non ha fatto passare invano: il mandante e cinque esecutori della clamorosa azione di sangue sono già alla sbarra, dopo la complessa istruttoria firmata dai pm Alessandro Milita e Cesare Sirignano, con il coordinamento del procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. Oltre al boss Setola, i killer Alessandro Cirillo, Giovanni Letizia, Davide Granato, Antonio Alluce. Tra due mesi comincia il processo. E dalle mille pagine dell´inchiesta emergono per la prima volta anche velate minacce contenute in alcune lettere del padrino Setola, messaggi inviati a pubblici ministeri e giudici.



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