INCHIESTA Italiani brava gente, si diceva una volta. Ma a dar conto degli ultimi incredibili episodi di violenza, sembrerebbe che non è più così. Viaggio nel Paese dove sempre più spesso trionfano rancore, insicurezza e paura. Domenica 14 settembre Abdoul Guiebre, un ragazzo di diciannove anni originario del Burkina Faso, ruba in un bar di via Zuretti, a Milano, due confezioni di biscotti. I proprietari, padre e figlio, lo inseguono e lo ammazzano a sprangate gridando: «Negro di...». I magistrati dicono che il razzismo non c'entra, ma c'entra tutto il resto: la futilità del furto, la reazione furiosa e spropositata, la banalità del male, insomma. Italiani brava gente, si diceva una volta. Oggi, a leggere certi recenti episodi di cronaca, sembra di essere diventati il Paese dell'intolleranza. Un'intolleranza che non è di matrice razzista, ma che può diventarlo, prima o poi, perché il razzismo cova nell'intolleranza. Un atteggiamento che nasce dalla paura, dal bisogno di sicurezza, dall'inquietudine per il "diverso". «Di fronte a un gesto minimo, padre e figlio hanno risposto con un gesto massimo. Sono saltate le forme di convivenza e i conflitti vengono risolti con la violenza», ha spiegato il sociologo Aldo Bonomi. «La morte di Abdoul lancia un segnale netto. La città è fragile e lo è da un pezzo». Chi ha preso una spranga e gridato quelle frasi, non l'ha certo fatto per legittima difesa, ha commesso un delitto a sfondo razzista, hanno scritto in un documento centinaia tra docenti universitari, liberi professionisti, insegnanti, sacerdoti come don Gino Rigoldi, pensionati e studenti, alla vigilia del suo funerale. La banalità del male non ha età. Può riguardare anche un gruppo di tredicenni, come quelli che nel Cremonese hanno infierito con sadismo nei confronti di un bambino di undici anni. O far dimenticare in un commissariato di Polizia, come quello di Monza, che viviamo nel Paese di Cesare Beccaria, così da ammanettare un povero cristo a una colonna per ore perché mancano le celle (ma a denunciare il fatto è stato lo stesso sindacato di Polizia, a testimonianza che la società civile ancora funziona). A volte può bastare uno sguardo di troppo tra due giovani, come è avvenuto a Torino, dove un operaio incensurato di 25 anni ha cosparso di benzina l'auto in cui era seduto l'uomo con cui aveva avuto pochi minuti prima un banale diverbio, dandogli fuoco. Altre volte sono le parole a essere usate come pietre. Come quelle dell'ex parlamentare di Rifondazione Francesco Caruso («i comunisti non sono democratici e possono pure gambizzare»), uno che si è dichiarato "sovversivo a tempo pieno". L'Italia ha i nervi scoperti. Sempre di più si litiga per un niente. La guerriglia urbana ormai è diventata un fatto quasi ordinario. L'abbiamo vista a Pianura, nei giorni dell'emergenza della monnezza. L'abbiamo rivista a Ponticelli, sempre a Napoli, con lo sgombero di un campo nomadi, preso a pietrate e a molotov da scugnizzi, gente comune, malavitosi ed esponenti della camorra. Si è materializzata con la devastazione degli ultrà napoletani nella prima giornata di campionato. Ed è ritornata dopo la mattanza di nigeriani a Castelvolturno. «Senza accorgersene, sta scomparendo quella coscienza del sociale e solidale che ha fatto l'Italia di ieri», ha scritto don Antonio Mazzi su questo giornale. Italiani brutta gente, insomma. Siamo diventati i veri barbari in casa nostra. Invasori del nostro Paese. Francesco Anfossi
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martedì 23 settembre 2008
NOI, I NUOVI BARBARI
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Una strage di lavoratori... Enrico Pugliese
CAMORRA Una strage di lavoratori Enrico Pugliese L'assassinio per mano della camorra di sei immigrati a Castelvolturno e le successive manifestazioni hanno dato la stura a tutti i luoghi comuni sulla situazione degli immigrati, sul loro ruolo e la loro condizione in quell'area ricca devastata del litorale di Napoli e Caserta, teatro della strage. Comincerei da qualche punto fermo. Non si è trattato - sembra ormai assodato - di un regolamento di conti. Questo è invece quel che si è detto subito, quello che in tutti gli ambienti di destra (e in larghi ambienti di sinistra) si è pensato e si continua irresponsabilmente a scrivere. Come ha ben mostrato ieri su La Repubblica Giuseppe D'Avanzo che pure non esclude che per uno o due ci possa essere stato un qualche coinvolgimento in minori attività di spaccio - l'indifferenza per le orribili condizioni di sfruttamento, la mancanza di rispetto della vita umana, condita dal disprezzo di stampo razzista per questa gente, hanno reso possibile quella situazione talché non dovrebbe destare meraviglia il fatto che una banda di camorristi possa «pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno». Alla domanda retorica su quanto valga un nero la risposta di D'Avanzo è «niente». E perciò davvero non c'è da scandalizzarsi «se duecento di questi niente hanno gridato per il pomeriggio la loro rabbia». Basterebbe la lettura dell'editoriale di D'Avanzo, oltre che la buona inchiesta a caldo del manifesto , e chiudere il discorso qui, se non ci fosse una invasione di luoghi comuni anti-immigrati negli organi di informazione anche quelli più seri. E allora è necessario ancora qualche ulteriore chiarimento. Così, ad esempio, la tesi del regolamento dei conti è fatta propria dal vescovo di Capua in una ineffabile intervista su La Stampa . Il prelato ci informa del fatto che trattasi di un regolamento di conti anche se «è difficile dire di che natura esso sia». Ma su altre cose il prelato non ha dubbi. Si tratta di nigeriani che rappresentano il nucleo più consistente, a suo avviso, «del litorale domizio da Ischitella a Pescopagano». E in molti hanno parlato di nigeriani, per poi scoprire che tra le vittime della strage non ce ne erano. Ma qualche responsabilità - ci informa il prelato (e non è il solo) - i nigeriani ce l'hanno, eccome: «I nigeriani sono gente intelligente ma dedita piuttosto alla droga e alla prostituzione». L'affermazione è grossa e l'intervistatore cerca di dare una possibilità di chiarimento al vescovo. Ma non c'è nulla da fare: «Sono solo loro a darsi alla droga e alla prostituzione». Amen. Dopo queste gravi affermazioni e tanto allarmismo il vescovo ci spiega che gli immigrati - esclusi i cattivi di cui sopra - «partono alle cinque del mattino dai casolari dell'entroterra dove abitano in quattro in una stanza e vanno a cercare lavoro nelle piazze dei paesi». E Guido Ruotolo nella pagina accanto ci illustra il come si tratta di lavoratori e fornisce informazioni sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Insomma i messaggi - su La Stampa come su altri giornali - appaiono largamente contraddittori. Comunque, l'impressione che resta al lettore o al telespettatore alla fine di tutto è quella di una situazione orribile, dove però orribili sono anche gli immigrati, come dimostrano le violenze alle quali essi si sono dati. E le violenze sarebbero state appunto un indicatore del fatto - che innocenti o no - si trattava di gentaglia. I nemici degli immigrati - quelli che predicano contro l'immigrazione clandestina (come se in Italia ce ne fosse mai stata altra) - comunicano che, se non c'è controllo, questi poveri disperati finiscono per ingrossare le fila della criminalità organizzata. In questo caso si è visto però che le vittime ingrossavano solo le fila del lavoro nero. E il lavoro nero c'è nelle aziende dei padroni, dei camorristi orrendamente sfruttatori e dei padroni non camorristi parimenti sfruttatori. Ma perché quegli immigrati stanno lì per quei lavori e in quelle condizioni? Ce lo spiega un po' proprio il prelato di cui sopra. «Il territorio è stato devastato, le paludi bonificate durante il fascismo sono diventate discariche abusive» e così via di seguito. Io ci andrei un po' più piano. La bonifica (comprensoriale e aziendale) - prima, durante e dopo il fascismo - ha cambiato il volto agricolo di quelle che una volta erano le terre dei Mazzoni. La nuova agricoltura intensiva ortofrutticola in terre una volta poco abitate richiede mano d'opera che deve venire per forza dall'esterno (prima i caporali la portavano da altre zone della Campania). La mano d'opera straniera migrante (con i suoi disperati bisogni) è quella più adeguata perché più flessibile e meno costosa. Proprio come nella ricca agricoltura della California che ha braccianti più poveri dei nostri. Perciò a Castelvolturno o a Villa Literno o a Casal di Principe troviamo i ganesi, gli ivoriani, oltre a qualche nord africano, i nigeriani e tutti gli altri lavoratori a giornata. Poi c'è anche la camorra, le discariche abusive e quant'altro. Ma quella è un'altra storia. La povera gente che è stata uccisa - gli immigrati del Ghana, del Togo etc. - era da noi per lavorare punto e basta. E se - fatto grave e disperante - se la prende generalmente con i bianchi. La cosa deve fare ulteriormente pensare: si sta creando un solco gravissimo che si può colmare solo con la solidarietà e che invece si allarga con i pregiudizi. |
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Nel buco nero di Castelvolturno dove la vita vale 25 euro al giorno
Eduardo Di Blasi
Si chiama Nency, ma il nome l'ha da tempo napoletanizzato in Nunzia. Viene dal Kenya, anche se quando le poni la domanda risponde: «Da Roma, ho fatto due anni per spaccio di droga a Rebibbia». Ha quasi cinquant'anni, i capelli bianchi, tre figlie e un ex marito che le passa 500 euro al mese. È una madre di famiglia che in questi due anni ha inventato una bugia («ho detto che sono andata in convento») per non raccontare alle figlie una verità difficile da nascondere.
Oggi, uscita da quel convento, è tornata a Castel Volturno e ha lasciato le figlie a Roma. Ha fame, in tasca non ha nemmeno i soldi per le sigarette, gira per strada con uno scialle leggero mentre inizia a fare veramente freddo. Eppure è tornata qui. Perché? Perché solo qui Nunzia può sopravvivere, può arrangiarsi, può grattare qualcosa per se, può nascondersi assieme agli altri suoi connazionali nell'enorme buco nero che da quasi trent'anni cancella le storie degli africani d'Italia. Troverà un tetto, troverà dei soldi, spacciando o mettendosi sul ciglio della strada a vendere quello che resta di se stessa. Ce la farà: sopravviverà. Troverà la sua fetta di vita alle spalle della Domitiana, in queste case basse attraversate da stradine piene di rifiuti e di facce di neri. Manderà i soldi a casa da questo nuovo convento senza indirizzo. Nessuno le chiederà nulla.
Come nessuno chiederà mai niente ad Alex, ghanese di 30 anni, faccia incazzata mentre cerca di mettere in fila due parole in italiano. Nessuno gli chiederà nulla, tranne l'affitto per il letto (150 euro al mese) e le sue braccia, che sono in vendita tutte le mattine alle cinque, in una piazza di Pianura, davanti al bar Ferrara. Una giornata di lavoro senza alcuna copertura assicurativa viene via per 20-25 euro, sei giorni la settimana domenica esclusa, sempre che il padrone non decida che preferisce picchiarti e non darti nulla, perché tu, in fondo, non sei niente.
Ecco perché nessuno chiede loro nulla, perché loro non esistono. Sono ventimila gli immigrati irregolari nella provincia di Caserta, almeno 11mila quelli di Castel Volturno, che sono per la stragrande maggioranza africani.
«Non esiste un posto così nel mondo», avvisa Antonio Casale, direttore del centro Fernandes, da 12 anni fiore all'occhiello della Caritas di Capua nel cuore di questo buco nero. Non esiste, non fa fatica a rispondere, perché qui, in 30 anni, non è successo niente. «Prima arrivavano i francofoni del Benin e della Costa D'Avorio, poi è stata la volta dei ghanesi, dei togolesi, dei nigeriani. Oggi arrivano i sudanesi, i liberiani, sempre più poveri e più ignoranti». Arrivano a Castel Volturno per due motivi fondamentali. Il primo è che in nessun posto del mondo un immigrato irregolare potrebbe trovare una casa. Non ci sono barboni a Castel Volturno. Tutti hanno un tetto dove ripararsi in questo paradiso di seconde case cadenti. La seconda ragione è che qui ci sono gli altri africani, da sempre. E allora puoi creare una microcomunità.
Eccolo il «modello Castel Volturno», la non integrazione di bianchi e neri che ha portato a quella che Casale definisce «la separatezza». Nel buco nero senza legge, dove anche un occupante di casa napoletano può chiedere l'affitto a un africano e la cosa sembra normale, dove le automobili non solo non hanno l'assicurazione esposta, ma alcune nemmeno il posto dove esporla, le comunità vivono per conto proprio.
«Hanno i loro negozi, i loro quartieri, anche le loro chiese». Tutti. Ognuno per sè. Ecco perché anche quelli che vivono qui da dieci anni non parlano una parola di italiano: perché sembra non dovergli servire. «Se ne accorgono appena vanno via da Castel Volturno». È un circolo vizioso che crea questi mondi paralleli, questi traffici leciti e illeciti. È l'obiettivo di trovare i sessanta euro a settimana, le due-tre giornate di lavoro.
«Cacciar via gli immigrati non è la soluzione al problema di quest'area. Per Castel Volturno e il litorale Domizio occorre altro: un organico progetto di riqualificazione». A parlare è l'arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, che presiede la fondazione Fernandez, che accoglie ogni giorno 60 immigrati con un servizio mensa che offre il pranzo a 100 persone. «Hanno paura ed è comprensibile: per mia esperienza personale questa è gente che non fa alcun male». Ma quel che ci vuole è una strategia: «Il discorso è più ampio e non si risolve mandando via alcune centinaia di stranieri, che qui fanno lavori che altri non intendono svolgere».
Fabio Basile, anche lui da anni nella trincea di Castel Volturno a metterci tutto quello che può metterci la società civile in un processo del genere (è tra gli animatori del centro sociale "Ex canapificio" di Caserta da sempre impegnato sul mondo migrante), non fa fatica a descrivere il modello suddetto: «È così, e nessuno se ne importa. Il governo, ancora una volta, pensa di farne un problema di sicurezza pubblica, ma qui è chiaro che stiamo parlando d'altro».
Vediamo bene di cosa stiamo parlando allora. «Noi siamo un piccolo comune campano con i problemi di una metropoli», sintetizza il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e per fare un esempio dell'enorme mole di lavoro che si trova a fronteggiare nella sua scomoda posizione spiega: «Abbiamo ventimila irregolari, venti vigili urbani e una sola assistente sociale, perché con i tetti di spesa non possiamo assumerne nemmeno un'altra, e non sto dicendo che ne servono due».
Non va meglio a polizia e carabinieri che dovrebbero presidiare un territorio in cui le regole non solo non esistono, ma sembra quasi non possano esistere, con la camorra che possiede case, negozi e bar, che spara e commercia, costruisce, investe, interra rifiuti speciali e fa mozzarelle. E queste centinaia di facce scure, schiavi composti di questa terra, che solo per identificarli ci vorrebbero 5mila giorni e per sequestrargli la macchina un deposito giudiziario di diversi chilometri quadri. Angelo Papadimitra, segretario della Cgil di Caserta, non ha dubbi: «Da questa storia si esce solo con una legge speciale per Castel Volturno. Ci vuole una sanatoria». Invece il governo si fa portabandiera di un nuovo «ordine pubblico», in un posto in cui i sei africani ammazzati giovedì scorso aspettano ancora un funerale. Tra sabato e domenica non si è trovato nessuno che facesse l'autopsia di quei corpi crivellati di colpi.
Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 8.37
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