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mercoledì 15 febbraio 2012

'L'Italia sono anch'io'. Città di nascita: Aversa, provincia della Nigeria

'L'Italia sono anch'io'. Città di nascita: Aversa, provincia della Nigeria 

Martedì 14 Febbraio 2012 15:24

di Mario Paciolla

Fuori è freddo. La pioggia cade senza posa imbrigliando la strada tra irregolari tappeti scivolosi di colore grigio. In queste condizioni rifletto sulla possibilità di raggiungere Castelvolturno in macchina. Dopo una breve colazione controllo il meteo e la connessione. Riesco a rintracciare Susan, chiedendole la possibilità di chiamarla via Skype. E’ in linea. 
Foto0034Stavo sbucciando gli yam insieme a mia madre”. Lo yam è un particolare tubero simile alla patata dolce, utilizzato in molte ricette africane. Non nascondo di aver subito chiesto cosa fosse uno yam. Dati i numerosi impegni, anche per lei è una buona idea rispondere a qualche domanda telefonicamente. E’ indaffarata a preparare il pranzo e, a causa del tempo, ha dovuto posticipare la sessione di prove con il coro gospel. Ha dei tratti molto forti ed il viso sembra intagliato in una corteccia d’ebano. I genitori, padre ghanese e madre nigeriana, si conobbero in Italia e, dopo un anno, decisero di sposarsi e metter su famiglia nel casertano. Susan nacque ad Aversa nel 1991. Dopo di lei nacquero altri due fratelli. Tutti in Italia. Nel raccontarmi del padre, un accenno di nostalgia sfiora appena la sua voce forte come il sole africano, dicendomi che la lasciò quando aveva appena nove anni. I pochi ricordi che conserva, sono legati ai racconti della madre. Dopo la perdita, la famiglia decise di stanziarsi nella provincia di Castelvolturno, dove è presente una delle più numerose comunità nigeriane del paese.
Mia madre aveva progettato di trasferirsi a Roma, dove viveva la sorella. Aveva documenti, visto e biglietto in ordine. Per un errore la fecero scendere a Napoli. Poi mia zia è tornata in Africa e lei ha conosciuto mio padre che invece era qui da molto più tempo”. Ci tiene a sottolineare con una certa premura che la documentazione presentata all’ambasciata era completa. “Mia madre non ha raggiunto l’Italia irregolarmente. L’hanno fatta diventare irregolare”. Quando Susan aveva dodici anni, la Questura decise infatti di negare il rinnovo del permesso di soggiorno alla signora Darboe, poiché non in possesso di un reddito adeguato ai parametri burocratici. Non avendo raggiunto ancora l’età per muovere i passi da sola tra le fila della Questura, Susan rientrava nella tutela prevista dal permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare della madre. Come diretta conseguenza è stata costretta a vivere per alcuni anni nel proprio paese da irregolare. Non era residente. Per lo Stato Italiano lei non esisteva. Con tanto di certificato di nascita e di frequenza scolastica. “Pensavo fosse tutto uno scherzo. Non ci credevo. Sono nata in Italia. Studio in Italia. Sono italiana. Davo per scontato che a 18 anni sarei diventata una cittadina italiana”. L’aggettivo “italiana” si rincorre in modo ossessivo tra una parola di Susan e l’altra. La madre entra nella stanza e le porge un piattino con qualche pezzo di banana fritta. Affacciandosi per un attimo sullo schermo, mi chiede con divertita e garbata ironia se ne volessi anch’io un po’. La ringrazio tenendole il gioco. Scompare e sento la porta chiudersi. Dai 13 ai 18 anni, Susan, pur frequentando regolarmente la scuola, è priva di documenti, crescendo in un clima di tensione nel timore di eventuali controlli che l’avrebbero potuta in qualche modo compromettere, rischiando addirittura il rimpatrio forzato in un paese che non ha mai né visto né visitato. Da quando è nata, non ha mai lasciato il territorio italiano. “Non riuscivo ad integrarmi completamente. A scuola ero l’unica che non poteva partecipare alle gite. Alle feste ero l’unica a non essere invitata. Le maestre e mia madre mi dicevano di non farci caso. Io però un poco ci stavo male e mi chiedevo il perché”. A 18 anni, in vista anche dell’esame di Stato, dopo ininterrotti ricorsi, riesce ad ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari ed acquisendo così una protezione internazionale da rinnovare ogni anno. Mi fa vedere il permesso. Alla voce 'nata a' compare il nome del comune di Aversa. Non noto nulla di strano. Abbozzando un sorriso, mi chiede di osservare meglio.
Paese: Nigeria. “Quando me lo rilasciarono, chiesi da quando Aversa fosse considerata una città della Nigeria. Non mi hanno saputo rispondere”.
Fuori continua a piovere incessantemente. La connessione comincia a vacillare trasferendo la chiamata ad intermittenze sempre più frequenti. Chiedo a Susan di chiudere la telefonata. La richiamo nel giro di pochi secondi. È iscritta al secondo anno di giurisprudenza e ha conseguito un certificato di inglese presso il Cambridge. Una volta concluso il ciclo di studi, potrà iscriversi all’Ordine degli Avvocati Italiani solo dopo aver presentato una documentazione degli specifici visti d’ingresso e aver sostenuto un esame di abilitazione previsto per i cittadini stranieri laureati in un’ Università italiana. Il fatto è che Susan non è mai entrata in Italia. Ci è nata e non l’ha mai lasciata. Lavora part-time con una cooperativa e non può in alcun modo firmare un contratto di lavoro per i soliti limiti imposti dai motivi legati al rilascio del permesso di soggiorno. E’ iscritta all’ ARCI e fa parte del dipartimento immigrazione CGIL di Caserta, collaborando come mediatrice culturale. “È un lavoro legato alla mia condizione e ai diritti che mi sono negati. Conosco le abitudini delle persone che arrivano in Italia. Provo a comunicare con loro e cerco di creare un’armonia rendendo le cose più semplici”. Le chiedo cosa le piacerebbe fare da grande. “L’avvocato, poiché anche se le cose dovessero cambiare, i problemi ci saranno sempre”. Mi continua a raccontare di quanto sia stato difficile per lei inserirsi e di come sia maturata nel corso degli anni riuscendo a capire come gestire le situazioni. Mi parla di partecipazione, diritti e cittadinanza in modo tecnico e preciso senza mostrare la minima esitazione. La connessione a quel punto ricomincia a dare problemi. In sottofondo sento la voce della mamma chiamarla dall’altra stanza. Mi chiede scusandosi se abbiamo finito. Con il suo consenso mi riservo di farle un’ultima domanda.
Una volta staccata la telefonata rivedo gli appunti presi fino a quel momento, poi Susan mi ricontatta. “Tra un po’ dovrei andare”. Le chiedo di Castelvolturno, della comunità nigeriana e della situazione dopo quanto accaduto negli anni scorsi. Con un attimo di perplessità, mi chiede cosa voglio sapere. “Conoscevo una delle persone uccise nella strage, per il resto ero piccola, non ricordo bene. La situazione dopo quella tragedia si è calmata. Tra italiani e immigrati c’è sempre stato un rapporto di amicizia. In fondo condividiamo tutti lo stesso problema che è anche la causa di quello che è successo e di quello che succede ogni giorno a Napoli”. Nonostante il pensiero inclinato a delineare una zona d’ombra in quello che dice, l’osservazione di Susan è impossibile da equivocare. “L’unico problema reale è quello dei documenti, che lega a doppio filo anche il problema dell’integrazione”. Per un attimo sembra avere un sussulto di curiosità e mi chiede con estrema ingenuità se può farmi una domanda. Mi parla di Jerry Masslo, della strage di Castelvolturno, di Firenze e di Senegal. Purtroppo cade la connessione. Provo a ricontattarla immediatamente senza risultato. Le dico che abbiamo finito e che può scrivermi ciò che voleva chiedermi. Sullo schermo compare una scritta: “Ogni volta che ci sono tragedie come queste, in Italia il Governo pensa bene di risarcire parzialmente i familiari e gli amici delle vittime rilasciando il permesso di soggiorno o addirittura in alcuni casi la cittadinanza. Perché deve morire qualcuno per far sì che le cose cambino?”. Saluto Susan e la ringrazio per la disponibilità, senza ovviamente essere in grado di rispondere alla domanda.
Intervista in collaborazione con Maria Seredenko e Ilaria Izzo dell’Associazione Hemispheres

http://www.levanteonline.net/index.php/litalia-sono-anchio/6093-litalia-sono-anchio-citta-di-nascita-aversa-provincia-della-nigeria.html

giovedì 21 aprile 2011

Seconde generazioni davanti a Montecitorio per il diritto di cittadinanza


Mercoledì 27 Aprile dalle 10.30 alle 14.00 il Partito Democratico scenderà in piazza insieme ai tanti giovani figli di immigrati con un Sit-In davanti alla Camera dei Deputati per rilanciare a gran voce la battaglia per la riforma del diritto di cittadinanza per chi nasce e cresce in Italia.
L'attuale legge sulla cittadinanza che nega il diritto ad essere italiani a chi è nato in Italia da genitori immigrati seppur residenti qui da tanti anni è per noi ingiusta e non più accettabile. Occorre al più presto riformare questa legge ormai obsoleta e caso unico in Europa riconoscendo la cittadinanza italiana immediatamente a chi è nato in Italia da genitori stranieri lungo soggiornanti e prevedere un percorso più rapido e agevolato per chi arriva in Italia a seguito dei genitori in età scolare con la concessione della cittadinanza italiana al termine del ciclo scolastico.
Il Forum Immigrazione del Partito Democratico non intende abbandonare questa battaglia di civiltà che riguarda ormai i diritti di circa un milione di ragazze e ragazzi italiani di fatto ma non di diritto e, per questo, sarà chiesto durante il Sit-In un incontro con i capigruppo di tutti i principali partiti politici rappresentati in Parlamento.
Per questa importante iniziativa, vi invitiamo a partecipare numerosi italiani, immigrati e nuovi italiani tutti insieme alleati per un'Italia più democratica.
Teniamo molto alla tua partecipazione.

Un caro saluto

Khalid Chaouki
Resp. Seconde generazioni
Forum Immigrazione PD
--
Khalid Chaouki
http://it.mc240.mail.yahoo.com/mc/compose?to=k.chaouki@partitodemocratico.it
+39 366 6462043


mercoledì 9 febbraio 2011

Basta ipocrisie sull’immigrazione

Basta ipocrisie sull’immigrazione
Attacco radical chic al premier inglese David Cameron il quale si è permesso di dire che in Inghilterra il multiculturalismo è miseramente fallito.
Il Primo Ministro inglese David Cameron La signora Madeleine Bunting si è arrabbiata molto con il premier inglese David Cameron il quale si è permesso di dire che in Inghilterra il multiculturalismo è miseramente fallito. Stizzita, la signora lo ha attaccato dalle colonne di The Guardian, il giornale della sinistra un po’ radicale e molto chic.


Eh sì, perché la signora Bunting è un’intellettuale famosa, firma d’eccellenza di quella sorta di "Repubblica in salsa britannica" che dell’Inghilterra multiculturale si è sempre vantata con orgoglio progressista. Con tono lirico la signora ha raccontato la sua recente esperienza di multiculturalismo che smentirebbe Cameron: e cioè il suo shopping del sabato mattina in Hackney’s Ridley Road nell’East London, dove "dozzine di nazionalità diverse si aggirano alla ricerca delle migliori verdure, vestiti, coperte e utensili da cucina. E l’aria è piena della fragranza di pane turco e pesce salato africano e le bancarelle sono colme di yams e chili". Ci siamo dilungati sull’articolo della signora Bunting per due motivi: primo per rincuorare noi italiani del fatto che le intellettuali di sinistra inglesi riescono a essere anche peggio delle nostre. Secondo, per dimostrare l’astrazione con la quale un certo mondo intellettuale progressista continua ad affrontare i temi che rappresentano le sfide per la sopravvivenza dell’Occidente: e il multiculturalismo è uno di questi. L’accusa di David Cameron fa riflettere sui rischi di una tolleranza che si riduce a mera accettazione di forme identitarie spesso ostili ai modelli e alle leggi dei paesi ospitanti. Il leader conservatore britannico ha fatto un’analisi spietata del processo di radicalizzazione di una parte dell’Islam che vive in Gran Bretagna. Ha denunciato l’errore di un multiculturalismo che ha permesso si creassero "comunità isolate che si comportano in modi contrari ai nostri valori" e ha affermato che bisogna smetterla di pensare a un modello di tolleranza passiva. Cameron ha coniato una nuova definizione, "liberalismo muscolare", di fronte alla quale la signora Bunting è inorridita, scrivendo subito che "questa è la politica del body-building: per lo più estetica ma con una possibilità implicita di opprimere".


In realtà, la riflessione sulla fine del multiculturalismo iniziò nel 2006 proprio con Tony Blair, all’indomani del drammatico attentato alla metropolitana di Londra in cui persero la vita oltre 50 persone. Per l’Inghilterra, la scoperta che gli attentatori suicidi erano giovani inglesi di religione islamica, di seconda e terza generazione, fu un risveglio brusco dalla favola del paese multicolore e pacifico. Fu in quei giorni che Trevor Philips, un insospettabile laburista d’origini afrocaraibiche, stretto collaboratore del premier proprio sui temi dell’integrazione, dichiarò al Times che la parola multiculturalismo "significa cose sbagliate". E poco tempo dopo fu lo stesso Blair a dire che in una società democratica ci sono "confini di valori condivisi dentro i quali tutti devono essere obbligati a vivere". Se gli intellettuali progressisti, oltre a fare shopping nei mercatini multietnici, provassero a navigare su YouTube, scoprirebbero realtà diverse dai paradisi multiculturali. "You Will Pay With Your Blood" è un breve video amatoriale che riprende le manifestazioni integraliste a Londra del 2006 davanti all’ambasciata danese in occasione delle proteste che incendiarono l’Europa per le vignette anti-islamiche. Si vedono giovani urlare slogan in perfetto inglese, inneggiare alla Jihad e alle bombe contro chi offende il Profeta e innalzare cartelli con scritte tipo: "Europa pagherai, il tuo 11 Settembre è vicino".


Nel centro di Londra. Attorno, un cordone di poliziotti garantisce il loro diritto a manifestare. Queste immagini racchiudono l’idea del fallimento del multiculturalismo molto più di qualsiasi concetto. L’immagine di un’Europa stretta nella contraddizione di dover garantire la libertà d’espressione a coloro che la vorrebbero distruggere è il paradosso del multiculturalismo non solo britannico. Il "liberalismo muscolare" che vuole Cameron non impedirà alla signora Bunting di continuare a fare shopping nel suo mercatino, ma forse riuscirà ad evitare che integralismo e fanatismo prendano piede nelle nostra società.
fonte

martedì 8 febbraio 2011

I Giovani musulmani espellono il loro fondatore: troppo moderato

Islam, i Giovani musulmani espellono il loro fondatore: troppo moderato



Il gruppo dirigente dei Giovani Musulmani d'Italia ha espulso dal Comitato garanti Khaled Chaouki, che nel 2001 aveva contribuito a fondare la prima formazione giovanile islamica del nostro Paese. Lui denuncia: in Egitto si lotta per la democrazia, qui si censura il dissenso


Chissà che ne direbbero, i giovani che in piazza Tahrir chiedono democrazia a costo della vita. Khalid Chaouki è uscito dal gruppo. L'aveva fondata lui, nel 2001, l'associazione Giovani musulmani d'Italia. «Volevo che fosse un ponte un ponte mediatore tra la cultura islamica e l'occidente, tra i padri e i figli della nuova presenza islamica in Italia». Parole d'ordine integrazione, dialogo, confronto. L'Islam moderato che incrocia la cultura italiana, passando attraverso l'incrocio con le altre minoranze, religiose e linguistiche, presenti nel Paese. L'hanno fatto fuori. Porta in faccia perché troppo moderato. Alla faccia di quei giovani che, sull'altra sponda del Mediterraneo dalla Tunisia all'Egitto, la porta l'ha invece aperta a nuove logiche democratiche e di pluralismo.
Il rapporto fra Chaouki e l'associazione era complesso da un po', da quando, nel 2004, lasciò la presidenza denunciando infiltrazioni estremiste, e dopo essersi attirato dure critiche per sue posizioni moderate: «I miei inviti a una condanna più netta al terrorismo, il modello di dialogo che proponevo, nulla andava più bene: l'associazione ha imboccato la via dell'arretratezza. Lasciai la presidenza, ma ritenni fosse mio dovere restare nell'associazione». Ieri l'organo dei garanti, comitato che raggruppa i fondatori dell'associazione, gli ha comunicato di aver votato all'unanimità la sua espulsione. Con comunicazione orale, «perché non hanno avuto neppure il coraggio di metterlo nero su bianco».
Spiega Chaouki: «Pensano di censurare il dissenso e il pluralismo con lo stesso zelo delle peggiori dittature contro le quali stanno combattendo altri giovani arabi e musulmani nell'altra sponda del Mediterraneo. La mia espulsione dall'associazione, che ho contribuito a fondare nel 2001, dimostra quanto sia ancora lunga la strada verso il rispetto dell'altro all'interno di alcune realtà organizzative dell'islam italiano». Di qui l'appello agli altri giovani musulmani affinché prendano le distanze dall'associazione: «È avvilente constatare che le speranze delle seconde generazioni dei musulmani in Italia siano purtroppo così mal riposte. Sono certo che, insieme a me, tanti giovani sapranno esprimere la volontà di cambiamento e la ribellione a metodi così settari e ormai fuori tempo». Khalid, marocchino, 28 anni, in Italia da venti, è stato membro della Consulta dell'Islam creata nel 2006 dall'allora ministro dell'interno Giuseppe Pisanu. Oggi è responsabile immigrazione dei Giovani del Pd. È diventato uno dei simboli di un Islam moderato, integrato, aperto.
Adesso lo hanno «processato come in un tribunale medievale», giudicandolo addirittura «pericoloso, indegno, dannoso, incompatibile con la mia comunità, così mi hanno detto».
Un segnale «tremendo», avverte ora il vicepresidente della Comunità ebraica di Milano, Daniele Nahum, che registra un «cambio nella direzione politica dell'associazione dei Giovani Musulmani, opposta a quella che portava avanti Khalid». Da anni, avverte Nahum, i Giovani musulmani hanno interrotto il dialogo e praticamente annullato le occasioni di confronto con la comunità ebraica: «Con Khalid presidente abbiamo portato avanti molte iniziative comuni per il dialogo fra i popoli e il ruolo delle minoranze etniche e religiose in Italia. L'espulsione di Khalid, un generale dell'associazione nonché massimo esponente della linea di apertura, è un segnale tremendo e pericoloso». Solidarietà a Chaouki è arrivata anche dal segretario dell'Unione delle Comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii), Ahmed Paolantoni. 

giovedì 7 agosto 2008

ALLARME AIDS....UOMINI SOLO & G2

AIDS: IMMIGRATI, A RISCHIO UOMINI SOLI E ADOLESCENTI
dell'inviata Enrica Battifoglia

CITTA' DEL MESSICO - Uomini che hanno lasciato la famiglia nel loro Paese di origine, che non conoscono la lingua, non sono scolarizzati e sono arrivati in Italia da meno di un anno: per la prima volta hanno un volto gli immigrati che in Italia sono più esposti al rischio di contrarre il virus Hiv. Il primo identikit di questo genere mai ottenuto in Italia è stato presentato nella conferenza mondiale sull'Aids di Città del Messico ed è il risultato del primo anno di attività dello studio Prisma (Progetti di intervento per una strategia modulare Aids: stranieri), condotto dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom) e finanziato dal ministero del Welfare attraverso il dipartimento per la Prevenzione.

Sapere quali caratteristiche hanno gli immigrati più esposti al rischio è importante per capire come mai in Italia 70% di coloro che scoprono di essere sieropositivi nel momento in cui ricevono la diagnosi di Aids sono immigrati.

L'ipotesi è che fra gli stranieri ci sia un numero di casi di sieropositività sommersa, difficile da stimare. Tuttavia, osserva la coordinatrice della Iom per i problemi di migrazione e salute nel Mediterraneo, Michela Martini, non ci sono dubbi sulle necessità di "potenziare le azioni di informazione dal momento in cui gli immigrati arrivano in Italia, e ancora più importante è iniziare le campagne dal loro Paese di origine, prima che partano". Complessivamente, ha aggiunto, sulle condizioni di salute degli immigrati "non ci sono dati allarmanti, né tali da giustificare test anti-Hiv a tappeto. Non c'é inoltre nessuna evidenza scientifica che i test permettano effettivamente di controllare l'epidemia".

Oltre agli uomini soli e da poco arrivati in Italia, sono a rischio anche gli adolescenti di seconda generazione, vale a dire che sono nati in Italia o che comunque vivano in Italia da molti anni. "Questi giovani - ha detto Martini - vivono un conflitto generato dal fatto che da un lato si sentono italiani, ma poi non sono riconosciuti come tali fino a 18 anni e di conseguenza entrano spesso in conflitto con la famiglia".

Su questo punto le conclusioni dello studio dell'Oim coincidono con quelle di un'altra ricerca sugli immigrati condotta da Carlo Giaquinto, dell'università di Padova, da cui emerge che gli adolescenti soffrono di nostalgia e solitudine e che in famiglia non riescono a trovare affetto. Basata su interviste a 20 madri sieropositive di origine africana, sei adolescenti rumeni e 60 infermieri, lo studio mostra come i comportamenti a rischio di Hiv scaturiscano da pregiudizi molto radicati. Ad esempio, le donne africane considerano la maternità uno status sociale e molte di loro hanno scoperto di essere sieropositive durante la gravidanza o al momento del parto.

Della diagnosi parlano solo con il partner e percepiscono l'Hiv come qualcosa da nascondere perché percepito come contaminazione, fonte di discriminazione, legato alla prostituzione, all'infedeltà e alla morte. Altrettanto radicati i pregiudizi nel personale sanitario, che mostra di avere incertezze su alcuni aspetti della trasmissione del virus e sull'aspettativa di vita delle persone sieropositive, di conoscere poco le culture di provenienza degli immigrati e di non avere alcuna comunicazione con le madri immigrate sieropositive.
http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_733682480.html


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