Visualizzazione post con etichetta POLIZIA. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta POLIZIA. Mostra tutti i post

mercoledì 23 febbraio 2011

Le due giornate di Napoli

Le due giornate di Napoli

Due continenti uniti da uno scopo: contrastare i fenomeni criminali comuni che ne mettono in pericolo la sicurezza. Questo il tema principale della prima conferenza che vede Europa e Africa a confronto

«Noi non abbiamo bisogno di interpreti per capirci, perché parliamo la stessa lingua: quella della polizia». Con queste parole il capo della Polizia Antonio Manganelli ha voluto concludere il suo discorso di apertura della Conferenza Euro-africana, svoltasi a Napoli l’8 e il 9 di febbraio.
Una due giorni all’ombra del Vesuvio, che ha visto la presenza di delegati delle polizie di 68 Paesi (quasi 300 partecipanti tra europei e africani) e di 11 organizzazioni internazionali, tutti riuniti con un solo scopo: rafforzare la collaborazione tra gli organismi di polizia dei due continenti.
È stata un’occasione unica di confronto tra due mondi, apparentemente distanti, ma profondamente uniti nella comune sfida che mette in pericolo la loro sicurezza.

Un percorso che parte da lontano, da quel settembre dello scorso anno quando il capo della Polizia e il segretario generale dell’Interpol Ronald Noble, decisero, in occasione di un incontro a Bruxelles, di ritrovarsi in una conferenza che mettesse seduti attorno allo stesso tavolo Paesi europei e africani.
Quarantotto ore, dunque, possono sembrare poche per affrontare problemi fondamentali che affliggono un’area così vasta come quella africana e che, per forza di cose, si ripercuotono sul Vecchio continente, ma sono solamente un punto di partenza.

Una conferenza, dunque, non fine a sé stessa, come ha sottolineato più volte Manganelli; non un incontro fatto solo di parole e buoni propositi per il futuro, ma di fatti concreti. E a dimostrazione di questo la presenza delle delegazioni di ben 44 Paesi africani (su un totale di 53) e di 24 altre Nazioni (Europa su tutte) per discutere delle problematiche che affliggono il continente nero e che si ripercuotono su tutto il resto del globo. Immigrazione clandestina, tratta degli esseri umani, traffico di stupefacenti e terrorismo sono stati gli argomenti su cui sono ruotate le due giornate napoletane.
Fin qui, si potrebbe dire, nulla di nuovo rispetto a un normale meeting internazionale sulla sicurezza, ma non è così. Dopo una prima giornata in cui si sono alternati i vari oratori sul palco della sala conferenze dell’hotel Royal Continental di Napoli, e in cui sono stati esposti i “buoni propositi”, il secondo giorno ha segnato la vera e propria novità in fatto di conferenze di questo genere: l’istituzione di quattro tavoli di discussione, sotto l’egida della presidenza italiana, sugli argomenti di cui sopra e ai quali hanno partecipato i delegati delle polizie africane, insieme a europei, asiatici e americani.
Quattro tavoli, dunque, che non esauriscono la loro funzione al termine del summit chiudendo i lavori semplicemente stilando un rapporto finale pieno di buone intenzioni, ma quattro vere e proprie commissioni permanenti che si riuniranno più volte nei mesi a venire per fare il punto della situazione sulle problematiche affrontate.

«I fenomeni che trattiamo in questa conferenza – ha continuato Manganelli – offendono i nostri Paesi e soltanto con un’azione congiunta possono essere contenuti o, addirittura, debellati. Sono spesso connessi fra loro e molte volte favoriti dall’instabilità interna politico-sociale, dalla povertà e dalla disperazione». Argomento quanto mai attuale quello affrontato dal capo della Polizia, alla luce degli ultimi avvenimenti che stanno sconvolgendo il Nord Africa e che, nella prima metà di febbraio, hanno portato di nuovo allo sbarco di migliaia di immigrati clandestini sulle nostre coste.
«Dobbiamo pensare – ha proseguito Manganelli – a quello che noi forze di polizia possiamo fare. È necessaria una forte azione congiunta per fare del nostro stare insieme il valore aggiunto della nostra lotta». E in quest’ottica l’Italia, infatti, ha concluso importanti accordi bilaterali con altre Nazioni. L’ultimo proprio durante i giorni del summit napoletano con Sudafrica, Gibuti e Sudan per fronteggiare i fenomeni criminali legati all’immigrazione clandestina. «Nel realizzare questi accordi – ha detto il capo della Polizia – abbiamo individuato ogni volta cinque obiettivi che ritengo siano di primaria importanza: lo scambio tempestivo di informazioni, l’avvio di investigazioni congiunte, la predisposizione di corsi di formazione per gli operatori nei diversi campi d’azione, l’assistenza tecnica con la fornitura di mezzi e lo scambio reciproco di funzionari. Una collaborazione in cui sono fondamentali anche altri organismi come, nel caso specifico del fenomeno migratorio, di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, ndr)».
Collaborazione è dunque la parola d’ordine, il principio fondamentale perché continenti profondamente diversi tra loro possano trovare un’intesa nella lotta comune a fenomeni che provocano allarme sociale, come il terrorismo. «Attualmente – ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni – la nuova minaccia è quella del cosiddetto “terrorismo in franchising”, ossia quella portata da persone che non vengono più addestrate nei campi di Al Qaeda, ma che vivono nei nostri Paesi e che, spesso, ne hanno anche la cittadinanza». Gli homegrown terrorist, i terroristi fai-da-te, non sono direttamente collegati alla rete del terrore internazionale, ma sono in grado di attivarsi autonomamente. E sono anche i più pericolosi, in quanto più difficili da individuare e, quindi, da neutralizzare. In loro aiuto accorre Internet, su cui si documentano sui principi del fondamentalismo religioso e su cui trovano le “istruzioni&rdqquo; per le loro azioni. E proprio il “Cyberspazio quale nuova piattaforma per la radicalizzazione: esperienze a confronto” è stato l’argomento portante del tavolo dedicato al terrorismo internazionale del summit napoletano. «Internet – ha detto il capo della Polizia – garantisce l’anonimato rendendo più facile il contatto tra gli appartenenti a cellule eversive e, non avendo il cyberspazio confini geografici e fisici, rende più difficili le investigazioni». Importanti accordi sono stati raggiunti anche in questo campo, a latere della conferenza, tra i Paesi e le organizzazioni che hanno preso parte alla tavola rotonda dedicata (tra cui l’Ncis, il Servizio investigativo della Marina statunitense), puntando soprattutto sul rafforzamento delle relazioni sinergiche nel settore del monitoraggio della Rete.
Ma anche il traffico degli stupefacenti e quello ancor più odioso degli esseri umani, sono stati tra gli argomenti che hanno animato il vertice partenopeo.
I trafficanti di droga, dopo il rafforzamento dei controlli nel Nord-Ovest del continente africano, si sono aperti nuove vie, grazie anche alla particolare orografia delle coste africane che, per propria conformazione, risultano difficilmente controllabili. Il tavolo dedicato al narcotraffico ha analizzato in profondità il fenomeno, anche alla luce delle previsioni sulle “nuove vie” della droga, come quella dedicata alla cocaina che si sta aprendo nella regione Sud del continente o quella del Corno d’Africa e dei Paesi che si affacciano sull’oceano Indiano per quanto riguarda l’eroina; e ancora ha individuato l’Africa come futuro epicentro per la produzione di droghe sintetiche. Eroina, cocaina, pasticche tutte destinate al mercato europeo. Favorire la creazione di un flusso informativo che possa dare una conoscenza approfondita e aggiornata della situazione, cercare di standardizzare i sistemi e i linguaggi comunicativi, pianificare attività progettuali comuni e cercare di armonizzare le normative sono i punti fondamentali su cui si sono trovati di comune accordo i partecipanti.
Ma un altro tipo di traffico che purtroppo oggi è una triste realtà, è quello degli esseri umani, dei “nuovi schiavi” del nostro secolo. «Sono ormai provati – ha detto Antonio Manganelli – i contatti tra le nostre organizzazioni criminali e quelle di Turchia, Grecia, Egitto e di cellule di altri Paesi. Noi abbiamo condiviso questo nostro sapere e stiamo combattendo il fenomeno anche attraverso accordi bilaterali. Questa è la strada da seguire». E su questi argomenti si sono confrontati i Paesi che hanno preso parte alla tavola rotonda sul fenomeno, arrivando alla conclusione di rendere “permanente” il tavolo, dandosi appuntamento tra sei mesi con una nuova convocazione per poter fare il punto delllla situazione.

Traffico di droga, nuovi schiavi e immigrazione clandestina sono tutti fenomeni in mano a quella criminalità organizzata transnazionale che, come ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, «è il nuovo nemico da combattere che inquina le economie ed erode istituzioni e democrazia. Gli Stati deboli sono più esposti alle infiltrazioni di questa criminalità, che li utilizza come base per la propria attività e li condiziona, o rischia di farlo, ricorrendo sistematicamente a corruzione e violenza. Senza dimenticare che ormai sono provate le sinergie tra terrorismo e criminalità organizzata transnazionale». E a confermare le parole del ministro, si aggiungono anche quelle del capo della Polizia: «L’obiettivo vero è quello di aggredire le ricchezze delle organizzazioni criminali per impoverirle. Dobbiamo riprenderci quel che ci hanno rubato e che, anche attraverso lo spaccio di droga, è costata la vita di molti dei nostri figli».
Dunque, una vera e propria lotta senza confini quella che attende il futuro delle polizie europee e africane, spesso non aiutate da una legislazione disomogenea tra Stato e Stato. «Parlare di armonizzazione di queste legislazioni – ha osservato Manganelli – equivale a fare un esercizio accademico di buone intenzioni. Tutti sappiamo che non è possibile arrivare a un’unica legislazione tra Paesi che hanno tradizioni, culture, obiettivi e princìpi non sempre comuni. Questo deve essere il nostro sforzo: dialogare e lavorare insieme armonizzando ciò che non è armonizzabile; dobbiamo compensare con le nostre tecniche investigative comuni, parlando la stessa lingua, con la voglia di raggiungere lo stesso obiettivo, leggendo insieme quel che i nostri ordinamenti non leggono allo stesso modo».
Un obiettivo comune del quale la conferenza di Napoli è solo il punto di partenza.



La lunga via verso l’Euro-africana
Napoli, Hotel Royal Continental. È qui che sono presenti quasi tutti i capi della Polizia dei Paesi africani seduti vicino ai loro colleghi europei, ai rappresentanti delle Istituzioni comunitarie e alle maggiori organizzazioni internazionali impegnate per la sicurezza mondiale. Obiettivo principale il contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta degli esseri umani che, come ha sottolineato il ministro dell’Interno Roberto Maroni in occasione della presentazione del progetto Across Sahara II (realizzato per sviluppare la collaborazione regionale e le capacità istituzionali nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione, foto in basso a sinistra), richiedono una risposta globale: «Bisogna capire, e far capire, che nell’epoca della globalizzazione il problema migratorio è un problema dei Paesi del Nord-Europa non meno di qi quanto lo sia per l’Italia o la Grecia. Per questo le dimensioni della sfida richiedono risposte globali in termini di condivisione delle responsabilità tra i Paesi europei e di cooperazione con i Paesi di origine e di transito, di collaborazione in ambito multilaterale e con le Organizzazioni internazionali, anche sul versante di programmi di sviluppo e stabilizzazione. Da come e da quanto, nel prossimo futuro, riusciremo a tradurre in pratica l’impegno a rafforzare la capacità dei Paesi terzi di controllare i flussi dell’immigrazione illegale dipenderà in buona parte il benessere delle nostre società, l’integrazione in esse degli immigrati regolari e, più in generale, la sicurezza dei nostri cittadini e di coloro che accogliamo». E pensare che alcuni dei Paesi africani qui rappresentati hanno accordi bilaterali in materia di sicurezza solo con il nostro Paese all’interno dell’Ue. Altri, invece, non sono in buoni rapporti tra loro. Per questo era difficile averli tutti intorno allo stesso tavolo, per questo era importante. L’idea è stata annunciata dal capo della Polizia in occasione del Simposio Eu – Interpol (foto in basso a destra), realizzato per fare il punto sulla cooperazione tra le polizie europee e quelle dei Paesi dell’Africa Occidentale, tenutosi a Bruxelles il 30 settembre scorso. Organizzare una conferenza, quella euro-africana, in Italia, per addivenire alla costituzione di gruppi di lavoro permanenti chiamati a pianificare e a realizzare concrete iniziative operative di polizie europee e africane, per lottare contro le organizzazioni criminali che sfruttano i “nuovi schiavi” e condurre congiuntamente operazioni di polizia per prevenire il fenomeno. Durante l’incontro il prefetto Manganelli ha proposto l’Italia come leader del partenariato di polizia Europa-Africa nella lotta al terrorismo, ai traffici illeciti e al traffico degli esseri umani. Molta strada è stata percorsa per raggiungere questo obiettivo. Una strada fatta di accordi: politici, operativi, bilaterali e multilaterali. Come quello firmato con la Nigeria e coordinato dall’Interpol (foto a destra), per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e il traffico degli esseri umani, che ha portato alcuni poliziotti nigeriani, dopo corsi di formazione, a lavorare spalla a spalla con i colleghi italiani in aeroporti internazionali, porti, e in alcune città. O quello sottoscritto con l’Algeria, anch’esso per rafforzare la collaborazione in materia di immigrazione, che ha permesso di incrementare sensibilmente lo scambio di informazioni e di esperienze tra la polizia italiana e algerina. Tra gli accordi più importanti vanno menzionati quelli realizzati con la finalità di contrastare, già alla loro origine, i flussi di immigrazione clandestina verso l’Italia; le intese con il GhanGhana e il Niger. Come ha spiegato il ministro dell’Interno: «Abbiamo accordi bilaterali ottimi con i Paesi mediterranei dell’Africa, nella fascia che va dal Marocco all’Egitto, ma si tratta spesso di paesi di transito dei flussi clandestini che in realtà originano dagli stati a sud del Sahara. Ecco perché vogliamo allargare a quell’area la fascia di sicurezza non solo per quanto riguarda l’immigrazione, ma anche per il contrasto al terrorismo e al traffico di droga». L’ importanza di queste intese è stata ribadita dal prefetto Manganelli: «Stiamo facendo accordi con tutti i Paesi dell’area. Si tratta di paesi “produttori” di clandestini e vogliamo contrastare questi flussi. È anche un modo per fare lotta al terrorismo perché i paesi islamizzati conoscono il fenomeno del fanatismo e c’è il pericolo che l’immigrazione clandestina possa costituire un veicolo per l’ingresso in Italia di terroristi». Raggiungere il giusto equilibrio tra politica di accoglienza e integrazione da un lato e rigore nei confronti dell’immigrazione clandestina che spesso alimenta altre forme di criminalità. Questo è il difficile banco di prova davanti al quale tutti i Paesi europei dovranno misurarsi.
Mauro Valeri
http://www.poliziadistato.it/poliziamoderna/articolo.php?cod_art=2175
 

mercoledì 21 ottobre 2009

Clandestina e prostituta: nemmeno l’amore la può salvare


Internidi GloriaDemo
pubblicato il 21 ottobre 2009 alle 10:30
Potrebbe davvero essere stato l’unico italiano ad aver avuto accesso al centro di identificazione ed espulsione di Bologna negli ultimi sei mesi prima di agosto. Abbiamo parlato Daniele Ciolli, ventenne piacentino noto alle cronache per l’odissea superata con successo nel suo eccezionale riuscire a varcare la soglia del “lager” di via Maffei


Tutto per vedere il suo ex amore, una ragazza nigeriana venuta in Italia ad inseguire la promessa di un posto di lavoro. Tutto nonostante la sua sedia a rotelle. “Raccontate quello che ho visto” ci ha chiesto. Non possiamo che fare così. Noi non siamo riusciti nemmeno in qualcosa di molto più semplice. Dovrei poterne essere certa, perché non ho motivo di dubitare che possano avermi mentito su una cosa “banale” come questa: all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di via Maffei a Bologna ci sono sia un campo da calcio che uno da pallacanestro. Mi era stato raccontato altrimenti e, per potermene assicurare, ho dovuto parlare con quattro persone diverse, tra quelle poche informate sui fatti più o meno autorizzare a comunicare con l’esterno.



CHI E’ ENTRATO QUA DENTRO? – Al centralino del Cie, alla mia insolita domanda, mi hanno risposto “Sono informazioni riservate”. Dopo qualche mia insistenza hanno comunque rilasciato la spettacolare rivelazione: “sì, c’è un campo da calcio, ma per farselo confermare chiami la prefettura“. Così ho fatto e: “Guardi, non le sto chiedendo se malmenate le persone…” ho tentato di rassicurare la quarta persona in ordine con cui ho parlato al telefono. Da buon responsabile mi dice: “sì, capisco, ma, sa, potrebbe chiamare un cittadino qualunque, mica possiamo rispondere a tutti. In ogni caso sì, c’è il campo da calcio ma anche uno da pallacanestro, niente palestra però. Insomma, c’è tutto quello di cui una persona ha bisogno per vivere….” Alla fine dunque risponde, ma lo sento a disagio mentre lo fa. Nel frattempo penso che io sono proprio un cittadino qualunque. Come del resto gli ho spiegato non sono una giornalista, anche se devo scrivere un pezzo. Per questo, ad un tratto, lo interrompo: “beh, credo che sia mio diritto essere informata, anche per valutare l’idea che viene diffusa quando quando ci si riferisce ai centri di identificazione ed espulsione. Sa, si scrivono tante cose al riguardo. Dovrei farlo anch’io, come le dicevo. Devo verificare qualcosa che mi è stato raccontato da una persona che ha visitato il posto”. Tuona, sorpreso: “Chi? Chi è che c’è stato?” Fin’ora è stato piuttosto gentile e disponibile, quasi mi dispiace non poter soddisfare la sua curiosità: “Eh, mica posso dirglielo così“ “Ma chi è che è entrato qui dentro?“, insiste lui.



UN LUOGO INACCESSIBILE – Il tono non sembra nemmeno più tanto stupito, anzi, mi sembra quasi di vederlo d’un tratto sorridere, come se non mi stia credendo affatto. Prima, lui come gli altri, mi ha spiegato che posso anche avere la possibilità di fare una gita panoramica nei corridoi tra le sbarre del centro, o tra le mura alte che limitano un corridoio all’aperto, a patto di farne richiesta formale in prefettura. Forse si è dimenticato però di avvisarmi che potrei non avere tante possibilità che la mia domanda venga accolta. Non posso nemmeno saperlo prima, perché, come mi è stato ripetuto più volte, finanche da un’operatrice della misericordia, ovvero una dipendente dell’ente che gestisce il funzionamento interno della struttura, sono informazioni riservate queste. Secondo Daniele Ciolli, il ragazzo con cui ho parlato, l’unico testimone italiano del Cei di Bologna con cui mi è capitato fin’ora di confrontarmi e l’unico italiano ad essere entrato a visitare il posto negli ultimi sei mesi prima di agosto (secondo quanto è stato gli è stato raccontato proprio da alcuni “mediatori della misericordia” che ci lavorano dentro) la concessione del “pass” per visitare da turista quello che lui descrive come un lager non è cosa affatto semplice.



LA STORIA DI DANIELE – Lui, ventunenne piacentino, iscritto ai giovani di rifondazione comunista – come ci tiene a precisare – è riuscito a varcare quella soglia tanto contestata, lì, in via Maffei, per ben cinque volte, due delle quali senza permesso alcuno. “Anche se ho pure litigato con qualcuno lì dentro, in certi momenti avevo quasi la sensazione che mi rispettassero. Forse non riuscivano nemmeno a capacitarsi che fossi un ragazzo sulla sedie a rotelle, anche un tipo mi aveva accusato di sfruttare la mia condizione di invalidità“. A portare Daniele dentro al Cie, prima che la sua sedia a rotelle, prima che i treni, gli autobus ed i taxi non tutti pensati per quelli nelle sue condizioni, è stato l’amore di allora per una ragazza, Jessica. Poco più che ventenne gli aveva rubato il cuore. È una bellissima nigeriana venuta in Italia con un biglietto pagato da quelli che poi si sono rivelati i suoi sfruttatori, con l’illusione che qualcuno le avrebbe offerto un lavoro come parrucchiera o babysitter. Invece poi si è trovata invece a battere le strade di Piacenza. “È lì che l’ho conosciuta“, ammette Daniele, “non mi nascondo. Cercavo una prestazione sessuale, poi è successo altro, ci siamo innamorati forse, anche se l’amore è una parola grossa. Ora non siamo più insieme comunque” E’ per lei che, nonostante un’odissea di vicissitudini varie, Daniele, a fine agosto 2009, riesce ad entrare la prima volta nel centro di identificazione ed espulsione di Bologna. Gli ho fatto qualche domanda.


L’INTERVISTA - Cosa hai visto? Muri alti e spessi, uomini con bende alle braccia ed agli occhi dietro le sbarre. Alcuni ululavano, altri chiedevano aiuto. E tu? Hai fatto qualcosa? No, la polizia mi proibiva di comunicarci. Ho visto anche qualche poliziotto passare davanti alle sbarre sputandoci dentro.Ti sei chiesto cosa fosse successo a quei poveri disperati?Probabilmente avevano tentato una qualche rivolta e le forze dell’ordine avranno dovuto intervenire. è disgustoso ma è il loro lavoro, purtroppo. Succede così. Fanno parte del sistema, un sistema sbagliato
Ma che tu sappia, son deliquenti le persone stipate lì dentro?Guarda, a detta di un operatore della misericordia, almeno tre quarti sono semplicemente clandestini, magari venuti qui su di un barcone in cerca di salvezza.

E la tua ex ragazza? Come c’era finita dentro?Come ti dicevo faceva la una prostituta, ogni giorno facendo la spola tra Torino e Piacenza, come tante altre. Così mi raccontava. Poi magari invece di tornare a Torino si fermava un po’ prima, non so bene. Solo vent’anni, poveretta, costretta ad andare con sessantenni schifosi, immagina. Ora che è fuori corre nuovamente il rischio.
Come mai è fuori?Sono scaduti i termini, piuttosto in fretta. L’hanno fatta uscire dopo circa due mesi. Comunque costerebbe meno tenerla in galera per qualche tempo più lungo piuttosto che pagarle in biglietto per tornare a casa. Me l’ha detto un tipo della questura.Ma quando faceva la prostituta, chi la controllava a Piacenza?In realtà le nigeriane come lei sono abbastanza, almeno apparentemente, libere. Arrivate qui vengono riempite di botte e minacciate con riti wodoo. Bastano questi a trattenerle da qualunque tentativo di fuga. Se ti capita di incontrarne una osservala. Noterai dei segni sul viso, sulle braccia.Che sono?Sono i segni lasciati dai riti. Loro ci credono molto. Se lasciano la strada qualcosa di grave accadrà alla loro famiglia. Questo gli mettono in testa. Oltretutto, se smettono di battere, cosa possono fare per vivere? Io ho tentato di salvarla, ho fatto di tutto, sono stato anche minacciato dal racket all’inizio, volevo farla aderire al progetto “Oltre la strada”, dell’Emilia Romagna, ma non ci sono riuscito, anche se ho lasciato i suoi dati ovunque, così che possano rintracciarla se occorre.

Ma come c’è finita dentro al Cie?Io ero in Spagna. È successo allora: l’hanno arrestata. Dopo due giorni lei mi ha telefonato e mi ha detto di essere stata rilasciata, che l’avevano messa in una casa protetta, che entro quattro mesi le avrebbero dato i documenti.

Si riferiva al Cie?Sì, l’ho scoperto il 22 agosto scorso, quando si sono andato. Era dentro già da quasi dieci giorni.Non è stato semplice, ho un’invalidità del 100 per cento, mi muovo su una carrozzina elettrica.Arrivato a Bologna, in via Maffei, chiedo alla polizia di Stato se posso vederla. Mi viene risposto di no, perché è necessaria l’autorizzazione della prefettura. Allora ci vado. Qui mi viene spiegato che devo attendere il lunedì, perché gli uffici preposti di sabato sono chiusi. Mi consigliano però di provare a tornare in via Maffei, di insistere per entrare, di far lor capire che per un invalido come me è problematico tornare a Bologna di nuovo. Con me ho tutto:carta d’identità, tesserino sanitario, postepay, carta blu del treno, codice fiscale.Non avevano certo la scusa di non poterti identificare, dunque, ma come è andata poi?Il poliziotto capo mi dice che sono un rompicoglioni, che la prefettura non capisce un tubo. Mi saluta con un vaffanculo e mi raccomanda di andare a rompere le scatole al Resto del Carlino.Ma ti fa entrare?No.Vai al giornale?Sì, e mi intervistano. Domenica mattina pubblicano un articolo di dieci righe. Intanto io, la sera -siamo ancora a sabato- torno al Cie. Mi fanno entrare. Un operatore della misericordia, che è dell’associazione che gestisce la struttura, mi accompagna in bagno. Devo ammetterlo, è stato davvero gentile. Poi chiedo di vedere “Jessica” e, ancora, rispondono di no, di tornare il giorno dopo.Torni a casa?No, perché perdo il treno accessibile alle persone per carrozzella diretto a Piacenza. Resto in giro di notte, a Bologna, solo, senza assistenza . Chiamo la polizia urbana, arriva la pattuglia e chiedo se la caritas può ospitarmi. Lì però non hanno hanno posto.E che succede?Alla fine rimedio in pronto soccorso, dove mi reco verso le due di notte. Mi danno un lettino e dormo un paio d’ore, tenuto d’occhio dai gentili infermieri e dal medico. Alle sette esco e mi dirigo in Piazza maggiore. Prendo l’autobus e torno al Cie. Lì incontro il capogruppo regionale di rifondazione comunista Masella che chiede di farmi entrare ai poliziotti, che, nuovamente, rispondono di ripassare nel pomeriggio. Ritorno ed entro!La vedi?Sì, prima mi aiutano nuovamente per andare bagno e poi me la fanno vedere….Riesci a parlarle in intimità?No, è terribile, dentro ci sono militari, doppi cancelli blindati, telecamere … Io e lei siamo in una stanza video sorvegliata e i poliziotti piantonano l’ingresso . Perquisiscono per ben due volte i regali che le ho portato: dell’intimo, delle t-shirt, un bagnoschiuma, orecchini, lucidalabbra. Lei si sente a disagio ed io piango . Non riesce quasi a baciarmi tanto si sente a disagio. Poi è scaduto il tempo e sono dovuto andar via. Un taxi mi ha riportato in stazione. Il giorno successivo ho telefonato al Cie e mi hanno chiesto di inviar loro un fax con la fotocopia della mia carta d’identità, che loro avrebbero inoltrato in prefettura.Volevi tornarci?Sì, mi hanno detto che dovevo attendere quindici giorni. Invece ne sono passati venticinque. L’ho rivista solo il 17 settembre. Le ho portato una rosa, oltre ai regalini. Ho fatto tutto per lei. Lei mi ha detto di aver fatto richiesta per ottenere asilo politico, ed il 21 ottobre ha l’audizione in commissione territoriale.Pensi che si presenterà?Non lo so. Le avevo offerto anche la consulenza gratuita di un avvocato di rifondazione, ma ha rifiutato. Comunque ha un buon avvocato d’ufficio.Ma vi sentivate mentre lei era lì dentro?Sì, a volte, con il telefono pubblico. Ne hanno uno per tutti i detenuti lì dentro. Devono pagare per poter chiamare fuori, sempre, comunque, davanti a tutti. Ma la mia ragazza, come gli altri, a volte preferiva tenere quei pochi euro che venivano dati loro, 2. 50 ogni due giorni, per prendere qualcosa dalle macchinette, per mangiare. È un ricatto.Non hanno una mensa?Sì, gestita dalla Camst. Si mangia male.Ma no, la conosco.Si mangia maleMa tu potevi telefonarle?Sì, ma non sempre riuscivo a farmela passare. Per questo una volta le ho regalato un telefonino. Si è messa davanti alla telecamera e l’ha infilato nel reggiseno, sperando di non farselo trovare. Capitava che ne avessero anche le compagne di cella. Mi ha telefonato anche con il loro qualche volta. Poi un giorno tutti i detenuti sono stati perquisiti e i cellulari sequestrati.Mi è stato raccontato che li hanno lasciati nudi, i maschi.
Non so se è vero.

Mai sentito di episodi di violenza sulle donne lì dentro? Non so se hai letto di quella ragazza, Raya, pestata a maggio scorso lì dentro, o di quelle donne bolognesi che son andate davanti al Cie per protestare al motto diqui si stupra”No, ad esser sincero non credo, comunque sì, forse ho capito a cosa ti riferisci. In ogni caso mi è sembrato che le donne, molte delle quali sono musulmane vengano trattate meglio rispetto agli uomini.Quanto tempo restano dentro le persone?Dai tre ai sei mesi. In genere non troppo, i posti sono affollati. La mia ex ragazza, ti dicevo, è uscita in fretta, e non so nemmeno dove sia ora. L’ultima volta che ci siamo sentiti abbiamo litigato.Torniamo al Cie. Vivono ciascuno in una cella singola?No, insieme ad altri. La mia ex ragazza aveva sette o otto compagneE che fanno durante il giorno?
che fanno durante il giorno?Dormono e guardano la tv. Ce n’è una in ogni cella, appunto, per distrarle

fonte

mercoledì 7 ottobre 2009

Rastrellamento al Pigneto, gli abitanti non ci stanno

Rastrellamento al Pigneto, gli abitanti non ci stanno
Dopo la gravissima operazione della guardia di finanza contro gli africani del quartiere romano, oggi hanno preso parola i residenti del quartiere, che lamentano il clima di paura e denunciano le manovre speculative dietro la pulizia etnica di via Campobasso. Con la scusa della «sicurezza».

Decine di finanzieri con manganello al contrario irrompono nelle case dei migranti senegalesi e nigeriani con la scusa di «controlli antiabusivismo commerciale», e portano via una cinquantina di persone, lasciandosi dietro porte sfondate, case distrutte e qualche ferito.
La scena è avvenuta ieri pomeriggio al Pigneto, quartiere all’inizio della via Prenestina al centro di «riqualificazione»: le guide dei locali romani scrivono che questa zona è un po’ «come Tribeca a New York»: case basse, artisti e locali. Dentro questo scenario vive una composizione sociale a tante facce: giovani in carriera, anziani nati e cresciuti tra la circonvallazione Casilina e porta Maggiore, studenti fuorisede e migranti, soprattutto bengalesi e africani. Se ti capita di fare molto tardi, al Pigneto, fai a tempo a vedere le birrerie che chiudono e le bancarelle del mercato che aprono, seguendo un ideale passaggio di testimone che rappresenta bene l’equilibrio delicato della zona. È un equilibrio, quello tra i giovani che hanno rianimato le piazze, i migranti che qui lavorano e gli abitanti storici, che le istituzioni e le forze dell’ordine dovrebbero contribuire a mantenere e non lavorare per demolire. Invece, i finanzieri ieri sono arrivati a muso duro per perquisire la case. Sono stati respinti fermamente dai migranti, che chiedevano se avessero un mandato di perquisizione, e sono tornati poco dopo in tanti e in assetto antisommossa, decisi a fargliela pagare a questi africani che conoscono persino i loro diritti.
Ma questa è anche una storia di resistenza, oltre che il resoconto di un normale abuso nella libera Italia di Bossi-Fini e Berlusconi e nella Roma di Alemanno e Storace. Per questo, quando la via piena di passanti assiste al rastrellamento, si mobilita. Qualcuno chiama gli avvocati, i rappresentanti della comunità senegalese, accorrono anche i ragazzi dell’Onda che poco lontano hanno occupato una palazzina per farne una casa dello studente autogestita, «Point break».
A decine si ritrovano all’ufficio immigrazione della Questura di Roma, dove si scopre che 18 migranti verranno trattenuti «per accertamenti», mentre di altri sette non si hanno notizie. È di questo pomeriggio la conferenza stampa del comitato di quartiere e degli abitanti multicolore del Pigneto, che mostrano di avere le idee chiare. «Con la scusa della sicurezza, la nostra città sta respirando in questi mesi un clima di violenta repressione: blitz contro immigrati, sgomberi di centri sociali e di spazi occupati in risposta all’emergenza abitativa – hanno spiegato quelli del comitato – Operazioni eclatanti, che colpiscono proprio i più deboli con l’obiettivo di aprire nuovi spazi agli interessi economici che governano la città». Anche gli abitanti parlano di «rastrellamento in piena regola». «Come accaduto al Pigneto, un quartiere che si vorrebbe ‘ripulire’, per renderlo una ricca vetrina dedita al commercio – proseguono gli abitanti – Forse, dietro lo sgombero, si nascondono gli interessi legati al mercato degli immobili in una zona che vive una gravissima emergenza sfratti e dove il prezzo delle case e’ in costante ascesa. Noi cittadini del quartiere siamo preoccupati di questa grave spirale di violenza dello Stato. Vogliamo che il Pigneto sia un quartiere dell’accoglienza, non della repressione e della speculazione».
Se si scende dall’isola pedonale verso il ponte che oltrepassa la linea ferroviaria, sulla destra c’è via Campobasso, la via degli africani. Fino a qualche anno fa, quando al Pigneto c’era solo un’osteria, questa stradina era meta dei cinefili perché è qui che si trova l’oratorio di don Pietro, il parroco che 54 anni fa aiutava i partigiani interpretato da Aldo Fabrizi in «Roma città aperta». Altri tempi, altri rastrellamenti.

 fonte

mercoledì 15 aprile 2009

Lampedusa/ "Picchiati dalla polizia". Le storie choc dei detenuti

Lampedusa/ "Picchiati dalla polizia". Le storie choc dei detenuti

Mercoledí 15.04.2009 11:34

LO SPECIALE

Lampedusa: la storia recente del Cie di contrada Imbriacola

Manganellati dalla polizia, "senza pietà”. Ferite alla testa, fratture alla mano e contusioni alle gambe. Per la prima volta, parlano i detenuti del Centro di identificazione e espulsione di Lampedusa. Denunciano gli abusi di alcuni agenti delle forze dell’ordine, le condizioni di sovraffollamento, ma anche la diffusa somministrazione di psicofarmaci e provvedimenti di respingimento differiti che non hanno tenuto conto delle settimane pregresse di detenzione scontate in condizioni del tutto arbitrarie. Nel Cie si trovano attualmente oltre 600 tunisini più un centinaio di marocchini. Molti sono detenuti da oltre tre mesi.

I PESTAGGI- “Ci hanno picchiato coi manganelli, ci hanno lanciato gas lacrimogeni. E noi eravamo senza niente. Eravamo in un angolo, e c’era gente che dormiva ancora. Una cosa mai vista”. Mo. ricorda così la mattina del 18 febbraio 2009. Quel giorno un incendio distrusse completamente uno dei padiglioni del Cie di Lampedusa. Il fuoco venne appiccato da alcuni detenuti tunisini, in risposta alle cariche della polizia - più di un centinaio di agenti in tenuta antisommossa - che avevano ferito diverse persone. F. ha assistito alla scena: “Li hanno trattati in un modo selvaggio. Senza pietà”.



GUARDA LA GALLERY

“C’erano poliziotti dappertutto - dice un altro testimone sotto anonimato, M. - tutti che picchiavano con i manganelli. Davanti a me, c’era uno che sanguinava e un poliziotto che l’ha manganellato sulla testa. Un altro aveva la mano rotta. E c’era uno che non riusciva a camminare sul piede”. Gli scontri sarebbero iniziati davanti alla mensa, dove quattro o cinque agenti avrebbero aggredito - secondo M., che era presente sul luogo – alcuni tunisini che li avevano attaccati verbalmente. Da lì la protesta si è allargata alle centinaia di persone presenti ed è esplosa con il lancio di almeno quattro gas lacrimogeni e le cariche. Ma anche nelle ore immediatamente successive. Y. ne parla come di qualcosa di noto: “Tutti sanno che quel giorno la polizia picchiò i tunisini, anche le organizzazioni che lavorano qui. La polizia era così arrabbiata. Alcuni li prendevano in due sotto braccio, e li portavano in bagno, uno alla volta. Poi chiudevano porte e finestre e li picchiavano”.

GLI PSICOFARMACI- La somministrazione di farmaci antidepressivi e calmanti nel Cie di Lampedusa sarebbe una pratica diffusa, secondo i detenuti intervistati. “La gente è troppo nervosa, prendono dei calmanti. Sono in molti. Li vedi perché hanno la bocca storta. Le medicine sono forti”, dice M. Altri invece lamentano la scarsità di medicinali. “Per qualsiasi malattia, ti danno sempre la stessa pasticca – dice Mo”. Y. invece è convinto che a volte vengano messi dei calmanti nel cibo della mensa. “Era un paio di mesi fa. Un paio d’ore dopo pranzo eravamo tutti così stanchi che volevamo dormire.. abbiamo pensato che ci fosse qualcosa nel cibo”.

Lampedusa/ "Picchiati dalla polizia". Le storie choc dei detenuti

Mercoledí 15.04.2009 11:34



SOVRAFFOLLAMENTO- . Il centro è ancora sovraffollato: ospita più di 700 persone in una struttura pensata per 381 posti e in parte distrutta dall’incendio. “Nella mia camera – dice F. – siamo 21 persone in 12 letti. La gente dorme sotto i letti, su dei materassini. Oppure in due sullo stesso letto. E alcuni dormono ancora nei corridori”. Niente rispetto a fine gennaio, quando il centro era arrivato a ospitare più di 1.900 persone. “All’epoca – dice Mo. - le condizioni erano terribili. Docce e toilette erano fuori uso. In una camerata eravamo oltre 100 persone. Dormivamo in due su ogni materasso e in due sotto il letto, per terra, i piedi davanti alla testa dell’altro”.

CONVALIDE- Il decreto che ha trasformato il centro di prima accoglienza di Contrada Imbriacola in un Cie è entrato in vigore il 26 gennaio. A partire da quello stesso giorno, la Questura di Agrigento ha iniziato a rilasciare i provvedimenti di respingimento ai 1.134 detenuti presenti. Nel giro di due settimane, Giudici di pace del Tribunale di Agrigento e avvocati d’ufficio hanno provveduto alla convalida di quei provvedimenti, e quindi al trattenimento per 60 giorni degli stranieri. Sessanta giorni che però non hanno tenuto conto del periodo di detenzione già scontato. L’udienza di convalida del trattenimento di Y. e Mo. si è tenuta il 30 gennaio 2009. I due erano detenuti nel Cie da tre settimane, dal loro arrivo il 9 gennaio. I 60 giorni di trattenimento però sono iniziati dal 31 gennaio. Così 21 giorni di detenzione arbitraria, senza la convalida di un giudice, diventano la norma alla frontiera d’Italia, alla frontiera del diritto.

ATTESA- Dopo le proteste che portarono all’incendio del 18 febbraio scorso e dopo un recente sciopero della fame, allo scadere dei due mesi di trattenimento, nel centro è iniziato il conto alla rovescia. Il 26 aprile scade infatti il decreto 11/2009 che aveva prolungato a sei mesi il termine della detenzione nei Cie, normalmente di 60 giorni. La norma è stata bocciata dalla Camera lo scorso 8 aprile. E se il Governo non varerà un altro decreto, dal 27 aprile i detenuti del centro torneranno in libertà.

LA STORIA- La moglie vive a Brescia con suo figlio. Ed è incinta del secondo. Lui è a Lampedusa. Detenuto nel Centro di identificazione e espulsione. E' il caso di un cittadino tunisino. Uno dei 900 trattenuti sull'isola da metà dicembre. Il suo ricorso contro il provvedimento di respingimento è stato rigettato per "difetto di giurisdizione”. Nel merito sarebbe inespellibile. Ma di fatto nessun Tribunale si dichiara competente. Il suo non è un caso isolato. Sono diversi i detenuti del centro che hanno presentato ricorso.

L'esito è per tutti lo stesso. Il Tribunale amministrativo della regione Sicilia (Tar) di Palermo si è dichiarato incompetente, indicando come competente il Tribunale ordinario di Agrigento. Le ultime due sentenze sono state pronunciate questa mattina. Tuttavia il Giudice di Pace di Agrigento si è dichiarato incompetente per difetto di giurisdizione. Tutto questo sebbene nel 2006 lo stesso Giudice di Pace si fosse dichiarato competente per dei casi simili. Se infatti il Testo unico sull'immigrazione indica nel dettaglio i termini e i modi per impugnare i provvedimenti di espulsione, non dice invece niente sul tribunale competente per i ricorsi avverso i provvedimenti di respingimento in frontiera. Tecnicamente ci sarebbe bisogno di un ricorso in Cassazione per risolvere la questione. Ma i tempi del ricorso sarebbero lunghi. Almeno un anno. E da qui a un anno tutti i migranti detenuti sull'isola saranno presumibilmente già stati rimpatriatihttp://www.affaritaliani.it/cronache

http://www.affaritaliani.it/cronache/lampedusa_picchiati_polizia_storie_choc_detenuti150409.html

mercoledì 1 aprile 2009

Dov'è finita la protezione della maternità?

Al Fatebenefratelli di Napoli il caso di una ivoriana in attesa dello status di rifugiato
Non ha potuto allattare il neonato. Il legale: applicano una legge che non c'è
Migrante partorisce in ospedalee gli agenti la fermano
di CONCHITA SANNINO

Kante con il piccolo Abou
NAPOLI - Voleva solo partorire il suo bambino. Si è ritrovata invece, dopo poche ore, con le forze dell'ordine richiamate in corsia da qualcuno dell'ospedale, forse un assistente sociale. Ha visto gli agenti che bussavano alla sua stanza di degente per la notifica di un ordine urgente: "Presentarsi in questura per l'identificazione". Ed è finita che quella madre ivoriana, ufficialmente "in attesa di status di rifugiato politico", non ha potuto allattare il suo neonato, Abou, per una decina di giorni, fino a quando non è arrivata dagli uffici dell'Immigrazione la conferma che il suo fascicolo esisteva davvero, e che quella donna non aveva raccontato frottole, né fornito falsa identità. Tutto incredibile, eppure vero. Proprio come se la controversa norma inserita dalla Lega nell'ambito del pacchetto sicurezza, quella che invita i medici a denunciare i pazienti senza permesso di soggiorno, fosse già entrata in vigore. Assaggio di una deriva annunciata. L'allarme lanciato da centinaia di specialisti in tutta Italia persino con petizioni inviate al capo dello Stato, il nodo dei "medici-spia" che ha infiammato il Parlamento spaccando perfino il Pdl, è già cronaca. Un caso unico. Che crea scandalo. A Napoli. Una vicenda rimasta sotto silenzio per alcune settimane. Avviene nel quartiere Posillipo, la città d'elite. Nell'ospedale retto da un ordine religioso, il Fatebenefratelli. Il 5 marzo scorso. Storia di Kante, giovane madre della Costa d'Avorio, 25 anni, vedova di un marito assassinato sull'uscio di casa nel 2005 nella loro città d'origine, Abidjan, in attesa da anni del riconoscimento dell'asilo politico. Kante vive ora alla periferia nord, un buco nell'alveare di Pianura, il quartiere della guerriglia sui rifiuti. Di aspetto fragile, sguardo spento dietro le numerose battaglie affrontate, Kante racconta: "In ospedale ci hanno chiesto i documenti, non gli è bastata la fotocopia del mio passaporto, mentre l'originale era trattenuto dalla polizia per la mia richiesta in corso. Non gli è piaciuta neanche la richiesta di soggiorno ormai scaduta. E per oltre 10 giorni mi hanno tenuta separata dal bambino".

Undici giorni è rimasto il piccolo Abou in ospedale: "Non lo hanno dimesso, non me lo hanno dato, fino a quando la questura ha confermato la mia identità. Ho temuto che me lo portassero via, che non me lo facessero stringere più tra le braccia". Neppure il padre del bambino, Traore Seydou, un falegname della Costa d'Avorio che qui si arrangia a fare il manovale in nero, ha ottenuto che venisse dimesso: "Non ero presente al momento del parto - dice - E quindi il piccino è stato registrato con il nome della madre". "'Non possiamo consegnarlo a te', mi hanno detto in ospedale. D'altra parte anche io sono senza permesso di soggiorno, in attesa che venga accolta la mia richiesta di asilo politico". Ma a ricostruire e denunciare la vicenda anche al Parlamento europeo è l'avvocato Liana Nesta, già avvocato di parte civile in alcuni importanti processi antimafia, al fianco delle famiglie di vittime innocenti. "Siamo di fronte a un caso illegittimo, di assoluta gravità", spiega. "Delle due l'una - aggiunge l'avvocato - o nell'ospedale napoletano Fatebenefratelli c'è un medico o un assistente sociale più realista del re che ha messo in pratica una legge non ancora approvata da questa Repubblica; oppure qualcuno ha firmato un abuso inspiegabile ai danni di una madre e di una cittadina. Conservo copia del fax partito dalla direzione amministrativa dell'ospedale, proprio nel giorno in cui partoriva la signora Kante, e indirizzata al fax del commissariato di polizia del quartiere".
(1 aprile 2009)
La Repubblica on line

martedì 30 settembre 2008

Ancora razzismo o, forse, non era razzismo?

Uno studente ghanese ha presentato denuncia: scambiato per un pusher, sarebbe stato picchiato e offeso dai vigili urbani
La storia del "negro" Emmanuela Parma è di nuovo scandalo
La Procura apre un'inchiesta, il comandante difende i suoi: "Si è ferito da solo, una caduta fortuita"dalla nostra REDAZIONE

OAS_RICH('Left');
Emmanuel Bonsu
PARMA - Il volto tumefatto dello studente ghanese e la sua denuncia ("sono stato insultato e picchiato dai vigili") incendiano il dibattito politico nella città della sicurezza. Un ritorno di fiamma che investe le istituzioni di Parma a poche settimane dalla foto di una prostituta accasciata a terra sul pavimento di una cella della polizia municipale. La procura ha aperto un'inchiesta affidata al sostituto procuratore Roberta Licci. Chiede ai carabinieri che hanno raccolto la denuncia del giovane di non diffondere informazioni. Hanno disposto una visita medica per il ragazzo. Nel frattempo, anche il Comune cerca di far luce sull'episodio. L'assessore alla sicurezza Costantino Monteverdi ha convocato una riunione con i dirigenti della polizia municipale. Del caso si sta interessando anche l'Ufficio antidiscriminazioni del ministero delle Pari opportunità. La Cgil parla di "episodio sconcertante e di una gravità inaudita". Il caso diventa nazionale con interrogazioni e prese di posizione dell'intera opposizione, dalla Sereni a Ferrero. IL VIDEO-TESTIMONIANZA - IMMAGINI - Emmanuel Bonsu si è presentato ai carabinieri insieme alla sua famiglia, con in mano una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale e un verbale del pronto soccorso. Spaventato più che arrabbiato, ha mostrato una busta del Comune di Parma con la scritta "Emmanuel negro" (LA FOTO). Dice che gliel'hanno data i vigili quando, dopo cinque ore passate nella cella del comando, lo hanno rilasciato. Il comandante della polizia municipale Emma Monguidi ipotizza che sia stato lui stesso a fare quella scritta e spiega che l'occhio nero è il frutto di una caduta a terra, rovinosa e fortuita: voleva sottrarsi ai controlli.
Cercavano uno spacciatore, ma in manette c'è finito uno studente che, ironia della sorte, sta per iniziare a lavorare come volontario in una comunità di recupero per tossicodipendenti. In attesa dell'esito degli accertamenti, è la politica a occupare la scena. Da giorni s'interroga sulle sette ordinanze anti-degrado firmate dal sindaco Pietro Vignali sulla scia del decreto Maroni. Ordinanze che colpiscono prostitute, clienti, accattoni, gente che schiamazza e che butta i mozziconi di sigaretta per terra. La scorsa settimana è stato annunciato l'arrivo di un elicottero, unità cinofile, diciotto nuovi agenti e manganelli per i vigili urbani. Ma ci si interroga sull'opportunità di affidare a questi ultimi compiti di polizia, per i quali non sono adeguatamente preparati.
(30 settembre 2008)

Da "Repubblica on line"

lunedì 22 settembre 2008

LA PRIMA RISPOSTA ITALIANA ALLA STRAGE



................."A Castelvolturno non c'è ostilità dei residenti con la comunità aficana», ha spiegato il capo dei poliziotti casertani. Una prima risposta alle violenze degli immigrati di venerdì scorso c'è già stata: una ventina di ghanesi sono stati identificati attraverso i filmati della Scientifica. Verranno espulsi dalla questura..................
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=292005



venerdì 19 settembre 2008

" Chained to the poll" ......



Dove ?: Monza (Milano, Lombardia) FOTO SHOCK !


IMMIGRANT CHAINED TO THE POLE IN AN ITALIAN POLICE STATION. THE POLICE COMPLAINED THAT ALL THE CELLS WERE OCCUPIED.....Hummm...
Over to you for your comments.
Quando: 18 Settembre 2008
Categoria: Cronaca

Descrizione dell'utente
La foto è stata diffusa da un sindacato di polizia, ed è comparsa con grande enfasi sul sito online del quotidiano La Repubblica.
Al commissariato di via Romagna a Monza, mancano le celle di sicurezza: dunque ecco la soluzione.
Ammanettano le persone fermate al palo. Mancano le celle di sicurezza, non c'è l'impianto antincendio,
si lamentano i rappresentanti sindacali che poi sottolineano i cronici problemi di organico: 'per una citta' di 130 mila abitanti circola una sola Volante e a volte con due soli agenti a bordo'




sabato 6 settembre 2008

Toscani:la foto della prostituta nigeriana è una dato di fatto

http://parma.repubblica.it/dettaglio/Toscani:la-foto-della-prostituta-nigeriana-e-una-dato-di-fatto/1509470

Toscani:la foto della prostituta nigeriana è una dato di fatto
Il fotografo Oliviero Toscani ha seguito la vicenda e ritiene che la foto in sè abbia creato più scandalo rispetto a quanto la realtà sia in grado di proporre. Toscani ha partecipato a "Settembre italiano", mostrando la sua vita in una serie di foto che lo hanno reso così famoso
di Giulia De Filippo
Dopo aver fatto il giro del mondo, ecco che torna a far parlare di sé in Italia. La foto della prostituta nigeriana, rinchiusa nella cella di sicurezza della centrale dei vigili urbani di Parma e immortalata stesa a terra con le mani incrociate e il petto scosso dai singhiozzi, è stata seguita anche dal noto fotografo Oliviero Toscani. La foto, pubblicata dalla redazione di Repubblica Parma, ha mostrato come viene trattata un prostituta senza documenti. Una foto molto forte che, secondo molti, non sarebbe dovuta essere pubblicata. Non per Oliviero Toscani, che ha partecipato a "Settembre italiano", affascinando piazza Garibaldi con le sue storie e le sue foto.
Il caso della "foto dello scandalo" non è passata inosservata davanti ai suoi occhi e, infatti, in poche battute è riuscito a esprimere il suo punto di vista, sia dal lato umano, sia da quello professionale: "E' una foto drammatica. Riporta una scena che è realmente accaduta, è un dato di fatto. Solo che tutti si sono scandalizzati per la foto in sé, che inevitabilmente suscita delle reazioni, come tutte quelle di un certo tipo. Ma la cosa drammatica è che non è la realtà a provocare tali reazioni, ma un'immagine". Il problema delle prostitute esiste, lo sanno tutti. Ma non tutti sono disposti a confrontarsi con la realtà dei fatti.

Sul palco Toscani ha parlato di creatività, quella creatività che ormai è assente tra i giovani: "Esige uno stato di non controllo, di sovversione: se si è sicuri, non si è creativi. Il grande problema italiano sono le mamme: andrebbero eliminate al settimo mese di gravidanza, perché per tutte i loro figli, soprattutto i maschi, sono dei geni, dei creativi. In questo modo tendono a far conformare e a non essere se stessi".
Tante le campagne pubblicitarie: per riviste come "Elle" e "Vogue", per grandi firme della moda tra cui Benetton, Iceberg, Armani, Valentino. E tante le splendide modelle con cui ha lavorato: Monica Bellucci, Claudia Schiffer e anche sua moglie, ovvero la modella di quella famosa pubblicità dei jeans "Jesus", che mostrava il suo lato b accompagnato dallo slogan "Chi mi ama mi segua". Era il 1973 e Toscani faceva già grande rumore nel mondo della pubblicità. Sarà davvero un provocatore? "Provocare significa essere generosi con l'umanità. Renderla partecipe di esprimere il proprio dissenso e il proprio modo di pensare".

In programma c'è un progetto che lo porterà a girare tutta l'Italia e fotografare gli italiani: come si sono adeguati e conformati alle immagini della televisione, perdendo ogni individualità.
Verrà anche a Parma, dove, per adesso, ha lavorato al manifesto della mostra del Correggio, immortalando un dettaglio dell'affresco del Duomo: un angioletto con il quale vuole mostrare la gioia dei particolari. E, infatti, i particolari si notano, visto il nudo integrale del bambino.
Ma qual è un'immagine che possa rappresentare Oliviero Toscani? "Un autoritratto da morto. Non so in che modo potrei riuscirei a realizzarlo, ma per adesso mi viene in mente solo questa situazione".
(06 settembre 2008)







EXTRA.COM

EXTRA OSPITI

FeedBurner FeedCount

Live Traffic Feed

NeoEarth