martedì 23 settembre 2008

BUCO NERO

Nel buco nero di Castelvolturno dove la vita vale 25 euro al giorno

Eduardo Di Blasi


lampedusa sbarchi immigrati 220
Si chiama Nency, ma il nome l'ha da tempo napoletanizzato in Nunzia. Viene dal Kenya, anche se quando le poni la domanda risponde: «Da Roma, ho fatto due anni per spaccio di droga a Rebibbia». Ha quasi cinquant'anni, i capelli bianchi, tre figlie e un ex marito che le passa 500 euro al mese. È una madre di famiglia che in questi due anni ha inventato una bugia («ho detto che sono andata in convento») per non raccontare alle figlie una verità difficile da nascondere.

Oggi, uscita da quel convento, è tornata a Castel Volturno e ha lasciato le figlie a Roma. Ha fame, in tasca non ha nemmeno i soldi per le sigarette, gira per strada con uno scialle leggero mentre inizia a fare veramente freddo. Eppure è tornata qui. Perché? Perché solo qui Nunzia può sopravvivere, può arrangiarsi, può grattare qualcosa per se, può nascondersi assieme agli altri suoi connazionali nell'enorme buco nero che da quasi trent'anni cancella le storie degli africani d'Italia. Troverà un tetto, troverà dei soldi, spacciando o mettendosi sul ciglio della strada a vendere quello che resta di se stessa. Ce la farà: sopravviverà. Troverà la sua fetta di vita alle spalle della Domitiana, in queste case basse attraversate da stradine piene di rifiuti e di facce di neri. Manderà i soldi a casa da questo nuovo convento senza indirizzo. Nessuno le chiederà nulla.
Come nessuno chiederà mai niente ad Alex, ghanese di 30 anni, faccia incazzata mentre cerca di mettere in fila due parole in italiano. Nessuno gli chiederà nulla, tranne l'affitto per il letto (150 euro al mese) e le sue braccia, che sono in vendita tutte le mattine alle cinque, in una piazza di Pianura, davanti al bar Ferrara. Una giornata di lavoro senza alcuna copertura assicurativa viene via per 20-25 euro, sei giorni la settimana domenica esclusa, sempre che il padrone non decida che preferisce picchiarti e non darti nulla, perché tu, in fondo, non sei niente.
Ecco perché nessuno chiede loro nulla, perché loro non esistono. Sono ventimila gli immigrati irregolari nella provincia di Caserta, almeno 11mila quelli di Castel Volturno, che sono per la stragrande maggioranza africani.

«Non esiste un posto così nel mondo», avvisa Antonio Casale, direttore del centro Fernandes, da 12 anni fiore all'occhiello della Caritas di Capua nel cuore di questo buco nero. Non esiste, non fa fatica a rispondere, perché qui, in 30 anni, non è successo niente. «Prima arrivavano i francofoni del Benin e della Costa D'Avorio, poi è stata la volta dei ghanesi, dei togolesi, dei nigeriani. Oggi arrivano i sudanesi, i liberiani, sempre più poveri e più ignoranti». Arrivano a Castel Volturno per due motivi fondamentali. Il primo è che in nessun posto del mondo un immigrato irregolare potrebbe trovare una casa. Non ci sono barboni a Castel Volturno. Tutti hanno un tetto dove ripararsi in questo paradiso di seconde case cadenti. La seconda ragione è che qui ci sono gli altri africani, da sempre. E allora puoi creare una microcomunità.
Eccolo il «modello Castel Volturno», la non integrazione di bianchi e neri che ha portato a quella che Casale definisce «la separatezza». Nel buco nero senza legge, dove anche un occupante di casa napoletano può chiedere l'affitto a un africano e la cosa sembra normale, dove le automobili non solo non hanno l'assicurazione esposta, ma alcune nemmeno il posto dove esporla, le comunità vivono per conto proprio.

«Hanno i loro negozi, i loro quartieri, anche le loro chiese». Tutti. Ognuno per sè. Ecco perché anche quelli che vivono qui da dieci anni non parlano una parola di italiano: perché sembra non dovergli servire. «Se ne accorgono appena vanno via da Castel Volturno». È un circolo vizioso che crea questi mondi paralleli, questi traffici leciti e illeciti. È l'obiettivo di trovare i sessanta euro a settimana, le due-tre giornate di lavoro.

«Cacciar via gli immigrati non è la soluzione al problema di quest'area. Per Castel Volturno e il litorale Domizio occorre altro: un organico progetto di riqualificazione». A parlare è l'arcivescovo di Capua, monsignor Bruno Schettino, che presiede la fondazione Fernandez, che accoglie ogni giorno 60 immigrati con un servizio mensa che offre il pranzo a 100 persone. «Hanno paura ed è comprensibile: per mia esperienza personale questa è gente che non fa alcun male». Ma quel che ci vuole è una strategia: «Il discorso è più ampio e non si risolve mandando via alcune centinaia di stranieri, che qui fanno lavori che altri non intendono svolgere».

Fabio Basile, anche lui da anni nella trincea di Castel Volturno a metterci tutto quello che può metterci la società civile in un processo del genere (è tra gli animatori del centro sociale "Ex canapificio" di Caserta da sempre impegnato sul mondo migrante), non fa fatica a descrivere il modello suddetto: «È così, e nessuno se ne importa. Il governo, ancora una volta, pensa di farne un problema di sicurezza pubblica, ma qui è chiaro che stiamo parlando d'altro».
Vediamo bene di cosa stiamo parlando allora. «Noi siamo un piccolo comune campano con i problemi di una metropoli», sintetizza il sindaco di Castel Volturno Francesco Nuzzo e per fare un esempio dell'enorme mole di lavoro che si trova a fronteggiare nella sua scomoda posizione spiega: «Abbiamo ventimila irregolari, venti vigili urbani e una sola assistente sociale, perché con i tetti di spesa non possiamo assumerne nemmeno un'altra, e non sto dicendo che ne servono due».
Non va meglio a polizia e carabinieri che dovrebbero presidiare un territorio in cui le regole non solo non esistono, ma sembra quasi non possano esistere, con la camorra che possiede case, negozi e bar, che spara e commercia, costruisce, investe, interra rifiuti speciali e fa mozzarelle. E queste centinaia di facce scure, schiavi composti di questa terra, che solo per identificarli ci vorrebbero 5mila giorni e per sequestrargli la macchina un deposito giudiziario di diversi chilometri quadri. Angelo Papadimitra, segretario della Cgil di Caserta, non ha dubbi: «Da questa storia si esce solo con una legge speciale per Castel Volturno. Ci vuole una sanatoria». Invece il governo si fa portabandiera di un nuovo «ordine pubblico», in un posto in cui i sei africani ammazzati giovedì scorso aspettano ancora un funerale. Tra sabato e domenica non si è trovato nessuno che facesse l'autopsia di quei corpi crivellati di colpi.

Pubblicato il: 22.09.08
Modificato il: 22.09.08 alle ore 8.37


http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=79205

1 commento:

Chukbyke.Okey,C. ha detto...

Una esperienza e testimonianza che io posso conferma; avendola vissuto sulla mia pelle nei primi anni '90 nella campagna tra Giuliano e Qualiano.
Charles



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